FINORA erano conosciute come mete del turismo ambientale, scrigni naturali di forme oniriche scolpite nel profondo, itinerari di visioni inconsuete. Ora si scopre che negli anfratti e nei cunicoli dei complessi carsici è scritto anche l'avvenire della natura. Nella goccia che cade dal soffitto delle gallerie scavate nel cuore delle montagne c'è la chiave per i segreti della Terra. Nello stillicidio di calcite che genera stalattiti e stalagmiti una mappa sibillina in grado di svelare il passato e il futuro del nostro clima. Lo ha scoperto un gruppo di ricerca internazionale coordinato da un team di studiosi dell' Università di Pisa. Dal 1998 reperta e analizza stalagmiti e stalattiti dell'Antro del Corchia, uno dei complessi carsici più grandi d'Europa. In parte aperti al pubblico nel 2001, i 60 chilometri della grotta generata nel ventre di uno dei massicci più imponenti della Versilia da processi di erosione millenari sono conosciuti soprattutto come una delle meraviglie turistiche del sottosuolo toscano. O come il corollario museale di uno dei maggiori centri di estrazione del marmo in Italia.
«Da qualche mese sappiamo con certezza che le grotte sono anche un registratore naturale dell'evoluzione del pianeta», spiega Giovanni Zanchetta, lo studioso pisano alla guida del team: «L'arco alpino della Toscana ha fatto da barriera orografica a tutta la circolazione atlantica per intere ere geologiche e di conseguenza è diventato un grande serbatoio di informazioni, una specie di hard disk naturale pieno di dati preziosi, anche relativi all' ultimo secolo, maggiormente caratterizzato da fattori antropici, cioè dall'intervento dell'uomo sulla natura» continua il paleoclimatologo. In una manciata di micron, nella goccia di acqua, calcio, uranio e carbonio che risuona da secoli nella pancia del Corchia, gli studiosi hanno scoperto un vero e proprio archivio dei cambiamenti ambientali dell'ultimo milione di anni. «Grazie a indagini chimiche e fisiche sulle concrezioni e all'osservazione del livello di decadimento dell'uranio, rapportato alle quantità di ossigeno e carbonio presenti nei sedimenti calcarei, siamo riusciti a stabilire con estrema precisione la datazione dei maggiori fenomeni atmosferici che hanno investito l'area atlantica. Adesso, ad esempio, sappiamo quali sono stati i passaggi cruciali degli ultimi 950mila anni. Si è già capito che la penultima glaciazione è finita 140mila anni fa, molto prima di quanto ipotizzato negli ultimi 70 anni dagli studiosi, che datavano l'evento con 10mila anni di ritardo. Ma la scoperta davvero inaspettata riguarda il luogo di partenza dell'ondata di caldo che ne aveva provocato la fine. La fase di scioglimento venne innescata nell'emisfero sud, non a nord come finora abbiamo creduto».
La ricerca a settembre è stata pubblicata sulla rivista Science, la fonte più autorevole di informazione per gli scienziati della comunità internazionale. I lavori del team guidato da Zanchetta sono ancora in corso. Altre perturbazioni, variazioni termiche, spostamenti della crosta, periodi di grandi precipitazioni o di mutazione morfologica del territorio saranno databili e riconoscibili grazie allo studio. «In più il nostro lavoro potrebbe rivoluzionare la storia della paleoclimatologia. Queste ricerche, oltre ad essere meno costose e invasive delle trivellazioni e dei carotaggi sulle calotte polari e sui fondali degli oceani, danno risultati migliori. Mentre sedimenti marini o lacustri non possono essere datati oltre il limite del carbonio 14, con le stalattiti possiamo risalire ben oltre e con grande accuratezza. E la particolarità del Corchia è quella di aver mantenuto un ambiente puro, incontaminato, condizione indispensabile per avere risultati attendibili». Non solo. La messe di dati raccolta dal gruppo di ricerca sarà utile a capire meglio cosa potrebbe accadere in futuro. «Applicheremo le informazioni che arrivano dal Corchia a modelli matematici con i quali già oggi tracciamo proiezioni sulle prossime variazioni climatiche», dice Russel Drysdale, studioso che collabora al progetto dall'Università di Newcastle, in Australia. «L'incognita e lo spettro di tutti è il riscaldamento globale, che in realtà è un fenomeno ciclico - continua il ricercatore - ma che l'intervento dell'uomo, con le emissioni di CO2, sta accelerando. Beh, le nostre simulazioni, grazie al Corchia, potrebbero rivelarci quando e cosa aspettarci».
Articolo di Mario Neri pubblicato su Repubblica-Firenze (25/11/2009)
venerdì 4 dicembre 2009
domenica 11 ottobre 2009
Il Burlamacco con la museruola
A VIAREGGIO lo gridano tutti: passerà alla storia come il carnevale della censura preventiva, della cartapesta imbavagliata. La commissione incaricata di valutare i progetti dei maestri della Cittadella ha bocciato due carri in concorso per l' edizione 2010. Uno, firmato da Enrico Vannucci, ritrarrebbe Berlusconi e le "sue" escort. L' altro è una metafora corrosiva e ironica della «paranoia da sicurezza innescata dalla politica del governo», dicono gli autori Gilbert Lebigre e Corinne Roger.
Entrambe le strutture però non potranno sfilare sui viali a mare, almeno così come sono state concepite. Sarebbero «poco emozionanti» e non avrebbero un «respiro internazionale». Queste le motivazioni dei tecnici nominati dal presidente della Fondazione Carnevale, Giovanni Maglione, emanazione della giunta comunale. La sua è la prima gestione di destra, almeno da vent'anni a questa parte. «I carristi dovranno rimettere mano ai progetti, ma non parliamo di censura politica. Semplicemente quei due bozzetti non sono stati ritenuti all' altezza», dice Maglione.
Eppure fra maggioranza e opposizione in consiglio il giudizio è unanime: in pericolo ci sono libertà d'espressione e spirito del Carnevale, tuonano Pd e Pdl a Viareggio. Nessuno vuol pensare a un Burlamacco che si autodisciplina, a una satira annacquata. L'appoggio ai due carristi è trasversale: «Nei limiti del buon gusto, la satira deve poter essere sempre libera», dice il sindaco Luca Lunardini. L'assessore alla cultura Ciro Costagliola non accetta che «ci siano interferenze sui contenuti espressi dagli artisti». E per il senatore del Pd Andrea Marcucci, se la commissione non facesse un passo indietro, «il nostro paese tornerebbe a coprirsi di ridicolo».
Eppure fra maggioranza e opposizione in consiglio il giudizio è unanime: in pericolo ci sono libertà d'espressione e spirito del Carnevale, tuonano Pd e Pdl a Viareggio. Nessuno vuol pensare a un Burlamacco che si autodisciplina, a una satira annacquata. L'appoggio ai due carristi è trasversale: «Nei limiti del buon gusto, la satira deve poter essere sempre libera», dice il sindaco Luca Lunardini. L'assessore alla cultura Ciro Costagliola non accetta che «ci siano interferenze sui contenuti espressi dagli artisti». E per il senatore del Pd Andrea Marcucci, se la commissione non facesse un passo indietro, «il nostro paese tornerebbe a coprirsi di ridicolo».
Censura, boicottaggio preventivo sulla cartapesta, «un'eco preoccupante - dice il segretario del Pd toscano Andrea Manciulli - del clima di soffocamento della libertà d'espressione che stiamo vivendo in Italia». In 136 anni di storia, sarebbe il primo caso di censura politica al Carnevale. In piena era Dc, fra gli anni Sessanta e i Settanta, fecero scalpore un Fanfani pulcino in camicia nera e fez, e un GattoMao Zedong che stracciava una bandiera americana. Reazioni, burrasca sui tg e sui giornali, ma nessuno si azzardò a bloccarli. L' allegoria dell' harem di Palazzo Grazioli ideata da Vannucci ritrae un Berlusconi bebè armato di biberon al viagra, e intorno escort e veline. «Le motivazioni con cui ce li hanno bocciati mi sembrano banali - dice il carrista - Ma attenti, ho un altro disegno nel cassetto ancora più graffiante».
L' altro carro è una metropoli del futuro blindata e protetta da divieti di accesso e cannoni che sparano coriandoli. A difesa dei varchi, come guardie di frontiera, le caricature di Borghezio, Calderoli, Maroni e Salvini. Sopra i "quattro colonnelli" della Lega, il premier che si protende dal televisore e fa segno di sparare con la mano (chiedete a Putin). Lebigre ha le idee chiare: «Non cambio tema, in ballo c' è l'anima del Carnevale, da sempre irriverente e libertario».
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (27/09/2009)
Ibi: mi sposo qui, tra i miei ricordi
«DA sola, ogni tanto, torno in via Ponchielli. Anche se è nera e bruciata, io la ricompongo pezzo per pezzo. Mi fermo davanti al civico 21 e cancello gli scheletri delle case, rimonto le macerie, metto insieme i flash. Rivedo la mamma e il babbo in cucina, i miei fratelli che giocano, come se nulla fosse successo, come se non fossero morti, e riesco a credere che un domani è possibile». Occhi di pece, capelli raccolti nel vento sul molo di Viareggio, Ibi è tornata qualche giorno fa da Casablanca, dove era volata a fine agosto.
Ibtissan Ayad, 21 anni, è la ragazza magrebina diventata simbolo della strage di Viareggio. Il 29 giugno ha perso suo padre Mohamed, 51 anni, sua madre Aziza, 46, suo fratello Hamza, 17 anni, e la sorellina Iman, di 3 anni: «Lei è il mio tesoro. Quando torno davanti al 21 la rivedo dondolare sull'altalena nel giardino, è come un miraggio: dura poco ma mi basta, mi deve bastare. Rimuovere non serve, io ricucio i ricordi. Piango sempre per quella notte in cui mio padre mezzo carbonizzato mi lanciò un bacio con la mano e mia madre non fece in tempo a fuggire perché aveva dimenticato i documenti, ripenso a Hamza, a lui che usciva fino a tardi, che era tornato prima di mezzanotte, e a Iman che cantava le canzoni del carnevale. Il destino è stato un domino, le tessere della mia vita le ha tirate giù tutte. Io sono rimasta in piedi e devo continuare a starci».
Ibi sa già come: «A metà ottobre mi sposo con Hicham. Un rito civile in Comune, perché mi sento italiana anche se la cittadinanza non ce l'ho. Se avremo una bambina la chiameremo Iman. Farò la pasticcera, una vocazione che ho ereditato da mia mamma. Preparava da mangiare per i ragazzi che arrivavano dal Marocco. Insieme a mio padre, faceva da punto di riferimento per chi approdava a Viareggio spaesato e confuso. La casa in via Ponchielli era una specie di casa famiglia. Lì non tornerò mai ad abitare, esala troppo dolore, ma con i soldi del risarcimento farò anch'io una casa famiglia, e mi sentirò di nuovo a casa».
Adesso vive con Hicham, un ragazzo di 24 anni che ha conosciuto quattro anni fa. Lei era arrivata a Viareggio nel 2004, in autobus. Dopo tre giorni di viaggio, l'autista si era fermato alla stazione: «Il babbo era qui dal '92, lavorava al porto nei cantieri navali. Ci accompagnò subito in passeggiata e io mi innamorai». Ora davanti al "bhar", al mare, Ibi va di sera, «piango e parlo da sola, ma sempre più spesso alzo lo sguardo. E la paura si dissolve»
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (24/09/2009)
Ibtissan Ayad, 21 anni, è la ragazza magrebina diventata simbolo della strage di Viareggio. Il 29 giugno ha perso suo padre Mohamed, 51 anni, sua madre Aziza, 46, suo fratello Hamza, 17 anni, e la sorellina Iman, di 3 anni: «Lei è il mio tesoro. Quando torno davanti al 21 la rivedo dondolare sull'altalena nel giardino, è come un miraggio: dura poco ma mi basta, mi deve bastare. Rimuovere non serve, io ricucio i ricordi. Piango sempre per quella notte in cui mio padre mezzo carbonizzato mi lanciò un bacio con la mano e mia madre non fece in tempo a fuggire perché aveva dimenticato i documenti, ripenso a Hamza, a lui che usciva fino a tardi, che era tornato prima di mezzanotte, e a Iman che cantava le canzoni del carnevale. Il destino è stato un domino, le tessere della mia vita le ha tirate giù tutte. Io sono rimasta in piedi e devo continuare a starci».
Ibi sa già come: «A metà ottobre mi sposo con Hicham. Un rito civile in Comune, perché mi sento italiana anche se la cittadinanza non ce l'ho. Se avremo una bambina la chiameremo Iman. Farò la pasticcera, una vocazione che ho ereditato da mia mamma. Preparava da mangiare per i ragazzi che arrivavano dal Marocco. Insieme a mio padre, faceva da punto di riferimento per chi approdava a Viareggio spaesato e confuso. La casa in via Ponchielli era una specie di casa famiglia. Lì non tornerò mai ad abitare, esala troppo dolore, ma con i soldi del risarcimento farò anch'io una casa famiglia, e mi sentirò di nuovo a casa».
Adesso vive con Hicham, un ragazzo di 24 anni che ha conosciuto quattro anni fa. Lei era arrivata a Viareggio nel 2004, in autobus. Dopo tre giorni di viaggio, l'autista si era fermato alla stazione: «Il babbo era qui dal '92, lavorava al porto nei cantieri navali. Ci accompagnò subito in passeggiata e io mi innamorai». Ora davanti al "bhar", al mare, Ibi va di sera, «piango e parlo da sola, ma sempre più spesso alzo lo sguardo. E la paura si dissolve»
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (24/09/2009)
martedì 15 settembre 2009
Tommasi, un uomo tutto uomo
PIETRASANTA - «Marcello sembrava un hidalgo spagnolo, non era tipo incline al compromesso e alle mezze misure. Un uomo tutto di un pezzo, un uomo tutto uomo, che ha vissuto il tragico quotidiano con grande dignità. Un personaggio inattuale per il mondo moderno, un dinosauro dell’esistenza che esprimeva se stesso attraverso una grande arte. E purtroppo di uomini e artisti così non ce ne sono più». Manlio Cancogni conosceva Marcello Tommasi fin da bambino. Parente e amico di tutta la famiglia, lo scrittore versiliese ricorda le lunghe conversazioni, le opere, il linguaggio e la grammatica che l’artista pietrasantino usava nell’arte dimezzata tra Firenze e Pietrasanta, fra la grande città del Rinascimento e la piccola Atene, in cui tornava tutte le estati nella villa di Fiumetto, proprio vicina alla sua sul lungomare.
Che cosa ha significato nella sua vita la presenza di Tommasi?
«Per me è stato prima di tutto un carissimo parente. Ricordo ancora la prima volta in cui lo vidi. Era nato da cinque mesi. Fu nel giugno del 1928, lo stringeva in braccio il padre Leone che era tornato in licenza alla casa di Fiumetto proprio per festeggiare la nascita del primo figlio. L’ho visto crescere e quando divenne un giovanotto cominciarono le nostre lunghe conversazioni. Parlavamo di arte e letteratura. Non era solo un grande artista, ma anche un uomo con un grande bagaglio culturale, che spaziava dal mondo classico a quello contemporaneo».
Era l’ultimo di una dinastia di artisti fra le più importanti in Italia. L’arte era una scintilla iscritta nel suo codice genetico?
«Beh sì. Dal padre ha ereditato la passione per i grandi dei secoli passati, c’è molto di Leone in Marcello. Però non si deve pensare che le sue opere siano state una riproduzione di quelle del padre. Addirittura prima di essere uno scultore, Marcello si dedicò alla pittura diventando anche uno degli allievi migliori di Annigoni. Forse, per una volontà inconscia di creare la propria identità creativa, scelse una strada che lo slegasse dal padre, ma indubbiamente ha imparato molto da lui. Tanto che quando morì Leone, Marcello prese la sua vera via, che era quella della scultura».
La vita di Tommasi è stata segnata da tanti momenti drammatici, come lo hanno cambiato?
«Profondamente. La morte dei fratelli, della nipote e infine quella della moglie, che ha amato teneramente e con passione fino alla fine, l’hanno stravolto. La vita gli ha fatto terra bruciata intorno, ormai viveva per le sue figlie e i nipoti. Eppure Marcello, come Riccardo, era un uomo esuberante, un carattere anarchico per certi versi. Amava circondarsi di persone semplici, una compagnia festosa fatta di gente comune, in cui rintracciava un’umanità che preferiva a certe pose aristocratiche. Un carattere verace e vitale che un po’ l’ha penalizzato».
In che modo?
«Ad esempio, non ha mai avuto un mercante che si occupasse di promuovere la sua immagine presso la critica, come invece aveva saputo fare Riccardo. E si sa, nel mercato dell’arte, contano anche questi aspetti, ma lui intravedeva un fama più grande, pensava che la Storia l’avrebbe riscattato. Non so se sarà così. Oggi l’arte non esiste più. Oggi tutti si proclamano artisti: i pubblicitari, i cantanti rock, perfino un cuoco è diventato un artista. È per questo che Marcello non amava più il mondo d’oggi».
Ma i suoi bronzi non sono solo un tributo e un’imitazione dell’arte antica.
«Certo che no. Marcello non era un sopravvissuto, un artista che viveva nel naufragio del passato. I greci, i manieristi come Pontormo e il Rosso Fiorentino, il Bernini, che lui considerava con spirito paradossale il più grande scultore universale, erano sentiti come depositi di forze morali per la sua riflessione. Al centro c’era la figura umana, l’uomo contemporaneo con i suoi tormenti, e per rappresentarlo si doveva spendere fatica, studio, coltivare la tecnica. Mi sembra questo il messaggio che oggi lascia ai suoi allievi e a chi pensa di intraprendere la via dell’arte. E spero che per questo anche Pietrasanta, che lui contrariamente a quanto si pensa amava ancora moltissimo, gliene sarà riconoscente, gli dedichi il giusto tributo».
Pubblicato da Mario Neri su ilTirreno (30/09/2008)
p.s. pubblico adesso questa intervista a Manlio Cancogni poiché si avvicina l'anniversario della morte di Marcello Tommasi. Nei confronti di Marcello ho un debito di conoscenza e affetto che non riuscirò mai ad estingure, neanche con mille di questi doverosi tributi alla sua memoria.
Che cosa ha significato nella sua vita la presenza di Tommasi?
«Per me è stato prima di tutto un carissimo parente. Ricordo ancora la prima volta in cui lo vidi. Era nato da cinque mesi. Fu nel giugno del 1928, lo stringeva in braccio il padre Leone che era tornato in licenza alla casa di Fiumetto proprio per festeggiare la nascita del primo figlio. L’ho visto crescere e quando divenne un giovanotto cominciarono le nostre lunghe conversazioni. Parlavamo di arte e letteratura. Non era solo un grande artista, ma anche un uomo con un grande bagaglio culturale, che spaziava dal mondo classico a quello contemporaneo».
Era l’ultimo di una dinastia di artisti fra le più importanti in Italia. L’arte era una scintilla iscritta nel suo codice genetico?
«Beh sì. Dal padre ha ereditato la passione per i grandi dei secoli passati, c’è molto di Leone in Marcello. Però non si deve pensare che le sue opere siano state una riproduzione di quelle del padre. Addirittura prima di essere uno scultore, Marcello si dedicò alla pittura diventando anche uno degli allievi migliori di Annigoni. Forse, per una volontà inconscia di creare la propria identità creativa, scelse una strada che lo slegasse dal padre, ma indubbiamente ha imparato molto da lui. Tanto che quando morì Leone, Marcello prese la sua vera via, che era quella della scultura».
La vita di Tommasi è stata segnata da tanti momenti drammatici, come lo hanno cambiato?
«Profondamente. La morte dei fratelli, della nipote e infine quella della moglie, che ha amato teneramente e con passione fino alla fine, l’hanno stravolto. La vita gli ha fatto terra bruciata intorno, ormai viveva per le sue figlie e i nipoti. Eppure Marcello, come Riccardo, era un uomo esuberante, un carattere anarchico per certi versi. Amava circondarsi di persone semplici, una compagnia festosa fatta di gente comune, in cui rintracciava un’umanità che preferiva a certe pose aristocratiche. Un carattere verace e vitale che un po’ l’ha penalizzato».
In che modo?
«Ad esempio, non ha mai avuto un mercante che si occupasse di promuovere la sua immagine presso la critica, come invece aveva saputo fare Riccardo. E si sa, nel mercato dell’arte, contano anche questi aspetti, ma lui intravedeva un fama più grande, pensava che la Storia l’avrebbe riscattato. Non so se sarà così. Oggi l’arte non esiste più. Oggi tutti si proclamano artisti: i pubblicitari, i cantanti rock, perfino un cuoco è diventato un artista. È per questo che Marcello non amava più il mondo d’oggi».
Ma i suoi bronzi non sono solo un tributo e un’imitazione dell’arte antica.
«Certo che no. Marcello non era un sopravvissuto, un artista che viveva nel naufragio del passato. I greci, i manieristi come Pontormo e il Rosso Fiorentino, il Bernini, che lui considerava con spirito paradossale il più grande scultore universale, erano sentiti come depositi di forze morali per la sua riflessione. Al centro c’era la figura umana, l’uomo contemporaneo con i suoi tormenti, e per rappresentarlo si doveva spendere fatica, studio, coltivare la tecnica. Mi sembra questo il messaggio che oggi lascia ai suoi allievi e a chi pensa di intraprendere la via dell’arte. E spero che per questo anche Pietrasanta, che lui contrariamente a quanto si pensa amava ancora moltissimo, gliene sarà riconoscente, gli dedichi il giusto tributo».
Pubblicato da Mario Neri su ilTirreno (30/09/2008)
p.s. pubblico adesso questa intervista a Manlio Cancogni poiché si avvicina l'anniversario della morte di Marcello Tommasi. Nei confronti di Marcello ho un debito di conoscenza e affetto che non riuscirò mai ad estingure, neanche con mille di questi doverosi tributi alla sua memoria.
lunedì 14 settembre 2009
Sopravvissuto a Viareggio: "Salvo ancora vite umane"
Microstoria dal volontariato
«DOPO quella notte ho pensato di mollare. Uscito dall'ospedale, davanti alla sede mi misi anche a piangere: mi vorticavano ancora in testa i fantasmi di quell'inferno». Luigi Cordoni, 45 anni, volontario alla Croce Verde di Viareggio, non ha ceduto alle ustioni e all'onda di fuoco che il 29 giugno l'ha travolto nel garage mentre tentava di salire su un'ambulanza per uscire e darsi da fare. Si è rimesso in sella, salva ancora vite nelle notti versiliesi.
Come ci si può riuscire?
«Pensi che l' hai fatto per anni, che ne hai viste di cose brutte, ma che hai iniziato perché volevi aiutare la gente ed è un tuo dovere continuare. Ecco come».
Quando ha iniziato e perché? «Ventisei anni fa, avevo 14 anni. Abitavo vicino all' ospedale, sentivo le sirene e sapevo che a bordo c' era qualcuno che sacrificava un po' di tempo per gli altri. Erano anni d' eroina e sbandati, io volevo aiutare i miei coetanei e non fare la loro fine»
Quanto tempo dedica al volontariato?
«Dodici ore ogni sei giorni, dalle 8 di sera alle 8 di mattina. Non potrei farlo se non mi appoggiassero mia moglie e mio figlio. Ma vi assicuro, il tempo si trova, basta solo volerlo».
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (09/09/2009)
«DOPO quella notte ho pensato di mollare. Uscito dall'ospedale, davanti alla sede mi misi anche a piangere: mi vorticavano ancora in testa i fantasmi di quell'inferno». Luigi Cordoni, 45 anni, volontario alla Croce Verde di Viareggio, non ha ceduto alle ustioni e all'onda di fuoco che il 29 giugno l'ha travolto nel garage mentre tentava di salire su un'ambulanza per uscire e darsi da fare. Si è rimesso in sella, salva ancora vite nelle notti versiliesi.
Come ci si può riuscire?
«Pensi che l' hai fatto per anni, che ne hai viste di cose brutte, ma che hai iniziato perché volevi aiutare la gente ed è un tuo dovere continuare. Ecco come».
Quando ha iniziato e perché? «Ventisei anni fa, avevo 14 anni. Abitavo vicino all' ospedale, sentivo le sirene e sapevo che a bordo c' era qualcuno che sacrificava un po' di tempo per gli altri. Erano anni d' eroina e sbandati, io volevo aiutare i miei coetanei e non fare la loro fine»
Quanto tempo dedica al volontariato?
«Dodici ore ogni sei giorni, dalle 8 di sera alle 8 di mattina. Non potrei farlo se non mi appoggiassero mia moglie e mio figlio. Ma vi assicuro, il tempo si trova, basta solo volerlo».
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (09/09/2009)
A Coltano irrompe don Tam
COLTANO (PISA) - A fine cerimonia, perfino Pietro Ciabattini, che dal 1996 insieme a un plotoncino di anziani ex repubblichini organizza la commemorazione del campo di prigionia alleato a Coltano, mette le mani avanti: «Delle cose che dice questo prete io non condivido quasi nulla». Nessun incidente fra giovani hard-right di Forza Nuova e antifascisti ieri mattina nella tenuta a un passo da Camp Derby a Pisa. Sotto i pini e ai bordi del campo che dal luglio al settembre del 1945 ospitò 35mila prigionieri italiani e tedeschi, insieme a un goccio di libeccio, si aggirano sussurri e sguardi imbarazzati.
Le invettive contro i gay, l'ossessione per «l'invasione islamica» e gli inviti a «intraprendere una nuova crociata contro gli sbarchi di immigrati che minacciano le radici giudaico-cristiane dell'Europa» che don Giulio Maria Tam distilla alla sua sparuta platea piacciono soprattutto alle falangi locali di Roberto Fiore, una quindicina di ventenni educati a un repertorio di braccia tese, «boia chi molla» e sentimenti antisemiti. Padre lefebvriano scomunicato a divinis, già candidato da FN a sindaco di Bologna e immortalato a Bergamo mentre benediceva con un saluto romano una testuggine armata di caschi neri e mazze tricolori, don Tam sfodera un armamentario a cui il gruppo di ex Rsi ed ex combattenti non era abituato.
Va bene che per i reduci di Salò e loro simpatizzanti il campo di Coltano era un «lager» anche se gli storici lo definiscono solo uno dei tanti centri di prigionia angloamericani da cui, fra l' altro, i reclusi furono quasi tutti liberati. Vanno bene la messa in latino, in stile preconciliare, e pure le stilettate allo «stato liberale e comunista», l'esaltazione di Mussolini («l' uomo della provvidenza»), ma le «cinquanta ave marie da recitare ogni giorno come i cinquanta colpi di mitragliatrice che servono per fare una di quelle Crociate di cui ora la Chiesa si vergogna» sono quasi troppo anche peri «camerati».
«Ma dove l' hai trovato questo parroco?», chiede un uomo in camicia nera a Ciabattini. «Non lo so», risponde l'ex Ss che a Coltano passò più di tre mesi e della sua esperienza ne ha fatto un best seller per nostalgici del Ventennio. Sedato dalla presenza di 100 agenti di polizia e carabinieri, l'allarme lanciato dalla rete antifascista toscana per la presenza del sacerdote valtellinese è un flop di cuori neri. Una cinquantina i reduci davanti al cippo commemorativo e una cinquantina i contestatori a 500 metri di distanza in presidio contro don Tam il "mattatore".
Lui che ha rivisitato l'abito talare («La tonaca è soltanto una camicia nera più lunga», sentenziò in un'ospitata forzanovista) è arrivato a Pisa grazie ai legami col partito di Fiore. A chi lo chiama il Williamson italiano, facendo riferimento al vescovo negazionista, risponde: «L'Olocausto? Non posso esprimermi, è vietato. E poi dicono che c'è la libertà della scienza storica...». Una risposta ce l'ha la rete antifascista pisana: «Tam e iniziative come quelle dei nostalgici di Salò a Coltano sono una minaccia per la democrazia».
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (07/09/2009)
giovedì 3 settembre 2009
Storia di un cuoco e della crisi
FIRENZE - Finora la corrente era bastata a far andare il frigorifero. Dentro c'erano uno yomo, mezzo melone, un cartone di latte, tre uova e un pezzo di pecorino. L' ultima cena sotto un tetto con la famiglia, per Luca S., è un pasto da consumare al buio in un appartamentino di San Frediano. Cuoco di 46 anni, da novembre senza lavoro e da due mesi padre del primo figlio avuto con G., già ragazza madre di una bimba di 13 anni. All' inizio di luglio gli avevano abbassato il voltaggio fino al 15 per cento. Ieri, alle cinque del pomeriggio, la luce sul soffitto è diventata una palla fumosa, poi tac. E fra poche ore salteranno anche gas e acqua, e la lettera dello sfratto è in un cassetto dell'ingresso da due settimane. Luca è uno sprofondato, pelle e ossa che da 9 mesi una bestia nera rosicchia lentamente: «Non s'è mai fermata. La prima cosa che ti risucchia la crisi però non è la luce, è la dignità». Fino a giugno ha tirato avanti con lo stipendio della compagna, 33enne assunta a 800 euro in un McDonald's fiorentino. Ora lei è in maternità, stipendio decurtato del 20 per cento e fra due settimane del 70, cioè 240 euro per mandare avanti quattro persone: «Di qui a qualche giorno la vita mi sputa su una strada, me e la mia famiglia», racconta Luca. «Sono venuto da voi perché non sapevo più a chi rivolgermi». All'inizio di luglio aveva bussato alla porta di Matteo Renzi, in uno dei mercoledì che il sindaco dedica al dialogo con i cittadini. Racconta la sua storia alla segretaria in un corridoio «dove ci sentivano tutti, lei mi dice che dopo 48 ore m' avrebbe richiamato. Niente». Luca ci riprova dopo dieci giorni e invece che nella sala Clemente VII lo mandano in viale De Amicis, all' assessorato al sociale. L'impiegato che si occupa dei casi come il suo è in ferie: deve aspettare il 26 di agosto. «Ci sono andato un sacco di volte. Mi avevano promesso un lavoro da imbianchino. Io gliel'avevo detto che l'imbianchino non l'avevo mai fatto, ma dicevano che m'avrebbero preso lo stesso. Alla fine una mattina alle 6 mi presento in Porta Romana, arriva quello della cooperativa e mi dice che lui aveva bisogno di un esperto perché c'era un lavoro da consegnare al volo. Così gli ho ridato gli scarponi e una settimana fa sono tornato in viale De Amicis». All'appuntamento con l'assistente sociale un'altra bordata: «Mi ha detto che per me non poteva fare niente. Non sono uno straniero né un galeotto né un drogato. S'è anche arrabbiato: "Che devo fare, darglieli io di tasca i soldi?", mi ha chiesto facendo il gesto di sfilarsi il portafogli dalla tasca». Alla Caritas a elemosinare un piatto di spaghetti Luca finora non c'è voluto andare: «Per 20 anni ho fatto il cuoco, ma non mi prende nessuno. Troppa esperienza, costo troppo. Ecco cos'è la crisi: una cosa che prima ti umilia e poi ti toglie anche la vergogna».
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (01/09/2009)
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (01/09/2009)
martedì 18 agosto 2009
La Cina che ama il mare
TANG l’hanno ripescato per un soffio due sabati fa a Marina di Pietrasanta. Nessuno ancora ha capito bene perché una ragazzo sui 25 anni si sia lasciato trascinare dove sapeva che non avrebbe trovato un appiglio né sabbia sotto i piedi. Sospinto da correnti e brezze leggere, gli uomini della Capitaneria di Forte dei Marmi sono riusciti ad acciuffarlo e a issarlo sul gommone duecento metri più in là rispetto a dove era entrato in mare. Sgusciato via da una delle due tende di cannicci che con una trentina di connazionali aveva affittato al Nautilus, la risacca l’aveva risputato mezzo vivo dove l’acqua gli arrivava già al collo. Nessuno che l’abbia visto dibattersi. Un paio di bevute e poi giù come un sasso.
«No, non so nuotare», ha fatto capire a gesti a chi l’ha soccorso e ai medici dell’ospedale Versilia, dove ha smaltito la sbornia a base di salsedine e posidonia. Lui non è il primo né probabilmente sarà l’ultimo dei cinesi che quest’estate stanno mettendo in allarme i militari della Marina che sorvegliano le coste della Versilia. «I cinesi sono turisti eccentrici, non sanno nuotare eppure si avventurano in mare senza prendere precauzioni. Sembra che non abbiano nessuna paura dell’acqua, anzi talvolta danno l’impressione di volerne sperimentare l’ebrezza», dice Fabrizio Ratto Vaquer, comandante della Guardia Costiera di Viareggio.
In uno stabilimento della città, qualche giorno fa, hanno fermato marito e moglie sulla battigia. Cinesi, a meno che non fossero ambulanti o massaggiatrici, fra i vacanzieri non se ne erano mai visti. L’apparizione ha suscitato stupore e fatto alzare le antenne ai bagnini: anche i due, persone di mezza età – poco avvezzi a bandiere rosse, gialle e altri segnali di pericolo – pensavano di sfidare i fondali marini. «I bagnini hanno chiesto se sapessero nuotare, loro all’inizio quasi non capivano, poi si sono spiegati a gesti. Era la prima volta che venivano al mare. E casi simili ce ne hanno segnalati dai bagni che hanno la piscina. Non riusciamo a capire se si tuffino per incoscienza o per emulazione. Cioè se credano sia facile restare a galla perché ci riescono gli occidentali», continua Ratto Vaquer che rivela: «La presenza di cinesi e asiatici sulle nostre spiagge è un fenomeno nuovo, quasi in nuce, ma potrebbe crescere il prossimo anno e forse bisognerà attrezzarsi per far capire loro che ci sono delle regole da rispettare e delle precauzioni da prendere prima di fare il bagno».
Così c’è già chi pensa di seminare cartelli pieni di ideogrammi che traccino l’identikit del bagnante modello: cioè quello che non entra in acqua dopo aver mangiato rischiando una congestione e che, ciambella e braccioli, anche se poco chic, sono un’accortezza che funziona a tutte le età. «Vengono da Prato, uno o due giorni nel fine settimana. Spesso sono in comitiva e te li ritrovi in venti accampati sotto un paio di tende o di ombrelloni anche se in direzione si erano presentati in due. Comunque sono silenziosi e molto educati», racconta Carlo Monti, presidente dell’associazione balneari di Viareggio. «Vero, però pranzano al sacco», dice Roberta del Nautilus che dall’inizio d’agosto riserva al turismo made in China un paio di tende e qualche ombrellone.
A Motrone, sotto il sole sfavillante dell’ultimo fazzoletto di sabbia prima di Lido di Camaiore, i figli del Dragone fanno capolino il sabato o la domenica anche nei bagni vicini, ma popolano soprattutto la spiaggia libera. Famiglie con bambini, esperti del mordi e fuggi, i migranti sfuggiti alle campagne affamate della Repubblica popolare sono appassionati di pedalò. «Vengono la mattina presto – racconta un bagnino al King – ne noleggiano due o tre, da noi e nei bagni vicini, ed escono fino a mezzogiorno a caccia di meduse. Ci riempiono delle anfore di vetro e poi le cospargono di farina. Dicono che fritte siano buonissime. Io li lascio fare, qui nessuno si lamenta più per le pinzature».
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (18/08/2009)
martedì 11 agosto 2009
Versilia, l'estate della crisi
VERSILIA - La villetta di Teresa, se aguzzi lo sguardo, è fra quelle che stanno lì, qualche metro più su degli ombrelloni seminati sul mare di Fiumetto in questo agosto di fuoco. Ma a vederla dall’alto, la spiaggia incandescente della Versilia non fa evaporare lo spettro della crisi. Da una parte bagni pettinati e semivuoti che lanciano s.o.s alla gestione dell’economia balneare, dall’altra l’affollamento di un weekend all’insegna del low-cost. «Io per affittare quest’anno ho dovuto abbassare il prezzo, un dieci per cento, ma ho dovuto», dice Teresa Balderi, uno dei tanti proprietari di residenze marinare che stanno mandando in tilt il giro d’affari degli affitti in Versilia. Sulla graticola della recessione globale a fine settembre potrebbero rimanere polverizzate 2 milioni di presenze. Da Viareggio a Forte dei Marmi, gli agenti immobiliari parlano di una flessione che va dal 20 al 30 per cento. Case vuote, soprattutto le abitazioni di fascia media o medio alta.
In una città come Viareggio – fanno un esempio dall’Apt – che fino a qualche anno fa in estate passava da 64mila a 180mila abitanti, la crisi potrebbe averne fatti sparire 40mila. «Il crollo – dice Giovanni Lombardi, presidente degli immobiliari a Forte dei Marmi – è dovuto all’esodo del ceto medio. Un fenomeno in corso da qualche anno, in più ora è arrivata l’onda lunga della crisi». Mancano all’appello l’avvocato o il commerciante. «Colletti bianchi lombardi o toscani che il Forte era abituato a ospitare nelle ville da circa 7mila euro al mese. Ci salviamo con i russi e gli industriali italiani che affittano le mega ville», confessa Maria Rosa Nardini di Studio Casa.
Da Marina di Pietrasantaa a Viareggio, dove i prezzi sono più bassi (partono da 5mila e scendono fino a 2mila euro nella città del disastro ferroviario), le cose non vanno meglio e tutti puntano il dito contro un responsabile preciso, i proprietari: «C’è chi ha fatto i saldi all’ultimo momento e chi invece, piuttosto di abbassare i prezzi, non l’ha neppure affittata», dicono all’agenzia Vittoria a Fiumetto. Il trend negativo non risparmia gli albergatori. La settimana scorsa la Federalberghi Toscana ha diramato gli ultimi dati del 2009: «Sono in calo anche gli arrivi ma è sceso soprattutto il numero di presenze – spiega il presidente Paolo Corchia – l’ultimo studio segnala un meno 7% di pernottamenti nelle strutture ricettive. C’è la tendenza a fare vacanze molto brevi, la media è di 5 giorni. In più sono spariti i turisti americani e inglesi e anche i russi vengono meno rispetto all’anno passato. Sopravviviamo con gli italiani a cui la crisi ha alleggerito le tasche e ha imposto vacanze nel Paese e non all’estero. Sono dati che incidono anche in ambito occupazionale. Quest’anno nessuno si è azzardato ad assumere un cuoco o un cameriere in più».
I numeri preoccupano anche i dirigenti dell’Apt locale: «Significano 200mila presenze in meno – spiega Massimo Lucchesi, presidente dell’agenzia per il turismo – ma è un dato che va aggiunto agli affitti estivi, che da noi fanno la parte del leone nel calcolo del numero di giorni che ogni vacanziero decide di passare in una villetta in Versilia». Su undici milioni di presenze, la Versilia è abituata a ospitarne quasi 8 nelle seconde case o nelle abitazioni che i residenti lasciano per far spazio ai turisti rintanandosi nell’entroterra. Secondo l'Apt quest'anno non sarà superata quota sei milioni: due milioni di presenze evaporate.
«Agenzie e proprietari non si sono adeguati al mercato – continua Lucchesi – quasi nessuno si organizza per affittare anche con cadenza settimanale, eppure i villeggianti non esistono più». Ora si aspetta settembre. La bolla finanziaria esplosa con i subprime potrebbe essersi mangiata una torta milionaria.
In una città come Viareggio – fanno un esempio dall’Apt – che fino a qualche anno fa in estate passava da 64mila a 180mila abitanti, la crisi potrebbe averne fatti sparire 40mila. «Il crollo – dice Giovanni Lombardi, presidente degli immobiliari a Forte dei Marmi – è dovuto all’esodo del ceto medio. Un fenomeno in corso da qualche anno, in più ora è arrivata l’onda lunga della crisi». Mancano all’appello l’avvocato o il commerciante. «Colletti bianchi lombardi o toscani che il Forte era abituato a ospitare nelle ville da circa 7mila euro al mese. Ci salviamo con i russi e gli industriali italiani che affittano le mega ville», confessa Maria Rosa Nardini di Studio Casa.
Da Marina di Pietrasantaa a Viareggio, dove i prezzi sono più bassi (partono da 5mila e scendono fino a 2mila euro nella città del disastro ferroviario), le cose non vanno meglio e tutti puntano il dito contro un responsabile preciso, i proprietari: «C’è chi ha fatto i saldi all’ultimo momento e chi invece, piuttosto di abbassare i prezzi, non l’ha neppure affittata», dicono all’agenzia Vittoria a Fiumetto. Il trend negativo non risparmia gli albergatori. La settimana scorsa la Federalberghi Toscana ha diramato gli ultimi dati del 2009: «Sono in calo anche gli arrivi ma è sceso soprattutto il numero di presenze – spiega il presidente Paolo Corchia – l’ultimo studio segnala un meno 7% di pernottamenti nelle strutture ricettive. C’è la tendenza a fare vacanze molto brevi, la media è di 5 giorni. In più sono spariti i turisti americani e inglesi e anche i russi vengono meno rispetto all’anno passato. Sopravviviamo con gli italiani a cui la crisi ha alleggerito le tasche e ha imposto vacanze nel Paese e non all’estero. Sono dati che incidono anche in ambito occupazionale. Quest’anno nessuno si è azzardato ad assumere un cuoco o un cameriere in più».
I numeri preoccupano anche i dirigenti dell’Apt locale: «Significano 200mila presenze in meno – spiega Massimo Lucchesi, presidente dell’agenzia per il turismo – ma è un dato che va aggiunto agli affitti estivi, che da noi fanno la parte del leone nel calcolo del numero di giorni che ogni vacanziero decide di passare in una villetta in Versilia». Su undici milioni di presenze, la Versilia è abituata a ospitarne quasi 8 nelle seconde case o nelle abitazioni che i residenti lasciano per far spazio ai turisti rintanandosi nell’entroterra. Secondo l'Apt quest'anno non sarà superata quota sei milioni: due milioni di presenze evaporate.
«Agenzie e proprietari non si sono adeguati al mercato – continua Lucchesi – quasi nessuno si organizza per affittare anche con cadenza settimanale, eppure i villeggianti non esistono più». Ora si aspetta settembre. La bolla finanziaria esplosa con i subprime potrebbe essersi mangiata una torta milionaria.
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (11/08/2009)
lunedì 10 agosto 2009
La faida dei bagnini accende il Palio dei Bagni
FORTE DEI MARMI - Ormai dai due lati del pontile era diventato come fra guelfi e ghibellini. La faida fra i bagnini negli ultimi due mesi ha rischiato di mandare all'aria la regata dei patini che a Forte dei Marmi si dovrebbe correre il 26 agosto. «Mi sembra di rivedere le rivalità e le ruggini di una volta, ogni pennone un campanile, siamo sempre uguali». Guglielmo Polacci, 75 anni, seduto sul patino di salvataggio vicino alla battigia del Marconi stringe un remo mentre racconta di essere uno di quelli che il Palio dei Bagni l'hanno visto nascere. Corse il primo nel 1951 e riuscì a vincere nel 1954. «Il putiferio quest' anno è scoppiato per la scelta del campo di gara. La fronda di ponente aveva accusato gli equipaggi a levante di aver monopolizzato il tracciato. Ma sembra che stiano per raggiungere un accordo», racconta Polacci. Per quest'anno il Palio si dovrebbe correre con partenza dal bagno Piero e arrivo al pontile, in onore ai vincitori della scorsa edizione, i bagnini del Paradiso a Mare. Ma dal prossimo il regolamento stabilirà l'alternanza.
Dopo anni di vuoto, il Palio è stato rispolverato tre anni fa proprio dal suo inventore, Giorgio Giannelli, storico ed ex giornalista del Forte che insieme a Urbano Polacci ne avrebbe voluto fare una regata di portata regionale, «quasi come la sfida che si corre fra le ex repubbliche marinare. E chi lo sa, forse ci sarebbe anche riuscito, ma Silvio Bianchi del Pennone era troppo forte, i bagnini si stufarono di vederlo vincere e così il Palio, dagli anni ' 60, si è sempre fatto a singhiozzi. E comunque lui introdusse i patini truccati. Perché all'inizio erano fatti di pino, grandi e pesanti. Il Bianchi se ne fece fare uno dall'Aliboni, un artigiano della zona».
Da quest' anno di gente che naviga con legni taroccati non ce ne sarà più. Il nuovo regolamento preparato dall'unione dei bagni del Forte stabilisce peso (non inferiore ai 90 chili), lunghezza e larghezza massima dei patini. «Mi sembra giusto. Ai miei tempi si vedevano anche quelli che ci avevano fatto istallare il sedile scorrevole. Fosse per me, la regata la farei con i patini di salvataggio: il mito dei bagnini nasce qui sopra».
Dopo anni di vuoto, il Palio è stato rispolverato tre anni fa proprio dal suo inventore, Giorgio Giannelli, storico ed ex giornalista del Forte che insieme a Urbano Polacci ne avrebbe voluto fare una regata di portata regionale, «quasi come la sfida che si corre fra le ex repubbliche marinare. E chi lo sa, forse ci sarebbe anche riuscito, ma Silvio Bianchi del Pennone era troppo forte, i bagnini si stufarono di vederlo vincere e così il Palio, dagli anni ' 60, si è sempre fatto a singhiozzi. E comunque lui introdusse i patini truccati. Perché all'inizio erano fatti di pino, grandi e pesanti. Il Bianchi se ne fece fare uno dall'Aliboni, un artigiano della zona».
«Glielo costruì più leggero, snello e pure con i remi che si flettevano per ricevere più spinta dall' acqua. Poi gli altri fecero lo stesso ma lui continuò a dominare. Era una forza della natura», racconta Polacci che però riuscì a beffarlo a un passo dall'ultimo pilone del molo marmifero ancora sventrato dai bombardamenti: «Lui e Niccolino del Paradiso a Mare ingaggiarono un lotta furibonda. A suon di punzecchiate si trascinarono fuori dalle due boe che delimitavano l'arrivo. Dovettero rigirarsi e intanto io era già passato».
Da quest' anno di gente che naviga con legni taroccati non ce ne sarà più. Il nuovo regolamento preparato dall'unione dei bagni del Forte stabilisce peso (non inferiore ai 90 chili), lunghezza e larghezza massima dei patini. «Mi sembra giusto. Ai miei tempi si vedevano anche quelli che ci avevano fatto istallare il sedile scorrevole. Fosse per me, la regata la farei con i patini di salvataggio: il mito dei bagnini nasce qui sopra».
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (09/08/2009)
domenica 9 agosto 2009
La miniera di mercurio nel cuore delle Apuane
STAZZEMA - Vent'anni fa i ragazzi del paese scendevano al Poggio, sul versante del canale che seguiva la lizza, e si intrufolavano fra i vagoni e le tramogge arrugginite a caccia di vipere e lucertole. I più coraggiosi sfidavano il Profondo. La rete sommersa di quelle grotte dell'Alta Versilia regalava grandi avventure e scoperte d' estate: gocce di metallo vivo, cristalli di cinabro e miracoli di trame rosse e argento intessute al quarzo di un giacimento abbandonato. Fantasticherie di mercurio e minerali che si pensano preziosi.
Quegli stessi ragazzi, a Levigliani, 300 anime arroccate sotto le Apuane nel comune di Stazzema, di quel buio sorpreso da lampi lunari non si sono dimenticati. «Il nostro è un antico borgo di cavatori - dice Emiliano Babboni, presidente di "Sviluppo e futuro", la cooperativa che gestisce le visite guidate al sito minerario - Negli ultimi 6 mesi i lavoratori del marmo hanno aggiunto fatica alla fatica, rinunciando a weekend e a ore di riposo, e senza finanziamenti pubblici abbiamo riportato alla luce la miniera dell' Argento Vivo, un nuovo percorso turistico che si aggiunge al Parco delle Apuane». Qui, a 870 metri d' altitudine, le forze della natura hanno creato anche gli abissi dell' Antro del Corchia, uno dei complessi carsici più grandi d' Europa.
Dopo mille difficoltà le attività della miniera cessarono nel 1970. Se ne fa cenno per la prima volta in un atto del Comune di Pisa del 1153. Carrelli, trivelle, binari, picconi e lampade ad acetilene. Due gallerie illuminate per un tragitto complessivo di 160 metri che porta in un universo remoto, la vita e il lavoro dei minatori riprodotta nei manichini, nei vecchi macchinari e in un' iconografia del sacrificio rinnovata per secoli. Un uomo spinge un vagone, un altro sale su una scala con una cesta piena di pietre. Sul cammino travature in castagno.
Quegli stessi ragazzi, a Levigliani, 300 anime arroccate sotto le Apuane nel comune di Stazzema, di quel buio sorpreso da lampi lunari non si sono dimenticati. «Il nostro è un antico borgo di cavatori - dice Emiliano Babboni, presidente di "Sviluppo e futuro", la cooperativa che gestisce le visite guidate al sito minerario - Negli ultimi 6 mesi i lavoratori del marmo hanno aggiunto fatica alla fatica, rinunciando a weekend e a ore di riposo, e senza finanziamenti pubblici abbiamo riportato alla luce la miniera dell' Argento Vivo, un nuovo percorso turistico che si aggiunge al Parco delle Apuane». Qui, a 870 metri d' altitudine, le forze della natura hanno creato anche gli abissi dell' Antro del Corchia, uno dei complessi carsici più grandi d' Europa.
Dopo mille difficoltà le attività della miniera cessarono nel 1970. Se ne fa cenno per la prima volta in un atto del Comune di Pisa del 1153. Carrelli, trivelle, binari, picconi e lampade ad acetilene. Due gallerie illuminate per un tragitto complessivo di 160 metri che porta in un universo remoto, la vita e il lavoro dei minatori riprodotta nei manichini, nei vecchi macchinari e in un' iconografia del sacrificio rinnovata per secoli. Un uomo spinge un vagone, un altro sale su una scala con una cesta piena di pietre. Sul cammino travature in castagno.
«La miniera è sicura – dice Babboni – gli ingegneri hanno messo sostegni in metallo, le travi in legno le abbiamo lasciate perché raccontano la vita dei minatori. Si dice che il castagno sia un legno che canta. Scricchiolava dando avvisaglie di probabili crolli. Vita dura, per gente di poche parole, quella in miniera. Come in cava si lavorava a cottimo, a pane e formaggio», arrampicandosi lungo tunnel inclinati da cui si calava il materiale per il trasporto sui sentieri impervi all' esterno.
Il giacimento è uno dei più antichi d' Italia. Non è mai stato ricco né ha fatto ricco Levigliani, ma è comunque una rarità planetaria: «Lo è per la presenza di mercurio allo stato nativo liquido. Nemmeno nei giacimenti di Almaden (Spagna), da cui nel ' 500 salpavano i carichi di mercurio per l' estrazione dell' argento in Sudamerica, si trovano concentrazioni così alte. Nella maggior parte delle coltivazioni, il metallo veniva ricavato scindendolo dal cinabro, un minerale di mercurio e zolfo che screzia gli scisti di venature sanguigne o si rinviene in cristalli rosso fuoco anche qui. In passato veniva usato anche come pigmento per i codici miniati», spiega Andrea Dini, ricercatore all' istituto di geoscienze al Cnr di Pisa.
«Ci venivamo da piccoli e credevamo di riportare a casa tesori e materia per grandi racconti. In realtà sono rocce originate da fenomeni vulcanici 450 milioni di anni fa e che la terra ha spinto in profondità nel miocene, durante la formazione degli Appennini», dice Emanuele Michelucci, leviglianese che delle scorrerie giovanili nelle insenature del giacimento ha fatto un progetto di vita intraprendendo studi di geologia all’Università di Pisa. La miniera è aperta tutti i giorni, dalle 9,50 alle 18, biglietto 6 euro. Si entra accompagnati da una guida e con un caschetto da minatore (info www.antrocorchia.it o 0584-778405). Ora da Levigliani si scruta l' orizzonte verso le spiagge della Versilia. Si spera che qualcuno, per un giorno, si risparmi dal sole e decida di intraprendere un viaggio nei monti.
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (08/08/2009)
Irons, la leggenda del surf in Versilia
VIAREGGIO - Il point break, il punto di rottura, «è una cresta levigata su cui corre il confine che segna l' essenza di questo sport e il tuo compimento esistenziale». L' onda perfetta, il ruggito alto quattro piani «mettetevi il cuore in pace - lo dice uno che ha girato le baie del pianeta- non esiste. Ne trovi una e il giorno dopo ne cerchi una migliore».
E comunque, dice Andy Irons ai ragazzini che lo assediano per un autografo al bagno Aloha a Viareggio - dove è arrivato giovedì con il tour Billabong - «I' m enjoing, io me la godo, questo è il surf», assicura il tre volte campione del mondo. Il mare della Versilia, capitale del surf «made in Italy», ieri era una lastra senza increspature. Niente esibizione, allora, solo consigli ai fan e scatti insieme al mostro sacro delle onde.
Poi nugoli di bikini che gli ronzano attorno: «Le italiane sono uno schianto, ma ho la mia Lidy», dice mostrando la fede al dito. Per lui, trentenne hawaiano cresciuto scivolando sulle onde di Kauai, il surf è una valigia di famiglia, di quelle «con cui esci di casa per un viaggio e poi non molli più». Figlio del Pacifico con un padre e un fratello surfisti, in venti anni di carriera c' ha messo dentro di tutto: i titoli da superman della disciplina, una sfida infinita con Kelly Slater, altra leggenda del surf, e scenari mozzafiato.
«Il più bello a Oahu, Hawahi, avevo 12 anni. Rimasi imbambolato fino al tramonto a guardare i grandi rubare centimetri ai tubi che si infrangevano a riva». Sono le 15, è appena tornato in Versilia dopo una visita a Firenze. Sceso ieri mattina a Piazzale Michelangelo è rimasto «senza parole». «Palazzi costruiti nel 1100, come è possibile?».
Industria mediatica che frulla miliardi e atleti che si cimentano con evoluzioni sempre più proibitive, il surf per Irons è possibile anche dove il mare non è una furia della natura: «Si può surfare alla grande anche in Italia, ci sono ottime condizioni 120 giorni all' anno. Il prossimo ci torno, mi hanno fatto vedere una foto con un' onda da sballo scattata da queste parti. Non può scapparmi».
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (08/08/2009)
E comunque, dice Andy Irons ai ragazzini che lo assediano per un autografo al bagno Aloha a Viareggio - dove è arrivato giovedì con il tour Billabong - «I' m enjoing, io me la godo, questo è il surf», assicura il tre volte campione del mondo. Il mare della Versilia, capitale del surf «made in Italy», ieri era una lastra senza increspature. Niente esibizione, allora, solo consigli ai fan e scatti insieme al mostro sacro delle onde.
Poi nugoli di bikini che gli ronzano attorno: «Le italiane sono uno schianto, ma ho la mia Lidy», dice mostrando la fede al dito. Per lui, trentenne hawaiano cresciuto scivolando sulle onde di Kauai, il surf è una valigia di famiglia, di quelle «con cui esci di casa per un viaggio e poi non molli più». Figlio del Pacifico con un padre e un fratello surfisti, in venti anni di carriera c' ha messo dentro di tutto: i titoli da superman della disciplina, una sfida infinita con Kelly Slater, altra leggenda del surf, e scenari mozzafiato.
«Il più bello a Oahu, Hawahi, avevo 12 anni. Rimasi imbambolato fino al tramonto a guardare i grandi rubare centimetri ai tubi che si infrangevano a riva». Sono le 15, è appena tornato in Versilia dopo una visita a Firenze. Sceso ieri mattina a Piazzale Michelangelo è rimasto «senza parole». «Palazzi costruiti nel 1100, come è possibile?».
Industria mediatica che frulla miliardi e atleti che si cimentano con evoluzioni sempre più proibitive, il surf per Irons è possibile anche dove il mare non è una furia della natura: «Si può surfare alla grande anche in Italia, ci sono ottime condizioni 120 giorni all' anno. Il prossimo ci torno, mi hanno fatto vedere una foto con un' onda da sballo scattata da queste parti. Non può scapparmi».
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (08/08/2009)
venerdì 7 agosto 2009
Vita da cani
FORTE DEI MARMI - Protetta da una zanzariera bianca, Mafalda si arrende alle lenzuola di seta alle otto di sera. Anche se la conosce da una vita, Omar dorme nella suite accanto, insieme ai due fratellini Leon e Dolly. «I tre yorkshire preferiscono il cotone e l’aria condizionata», racconta Cristiano Merra, l’inquilino di villa Gilardi, una casa-museo dove fra palmizi, erbetta pettinata e oleandri si è inventato il Dog Day Village, la pensione extralusso per cani a un passo da Forte dei Marmi.
Nobili soggiorni che riflettono i bagliori della società vacanziera in Versilia. Nel resort a cinque stelle «tutti devono sentir assecondate le proprie esigenze e avere i propri spazi». Mai un’ammucchiata da branco o una zuffa: «qui nessuno abbaia, si sentono solo leggeri guaiti fra villeggianti di rango. Conviviali, da salotto». Seta, climatizzatore e zanzariere nell’hotel canino in via Cugnia a Querceta - 1 km dal golf del Forte – sono solo alcuni dei comfort. Non ci sono cucce ma letti: in ferro battuto o in legno. «Non solo. In inverno metto le copertine di cashmere e accendo le stufette», dice Merra. Per alloggiare qui i clienti devono riempire un modulo, indicare abitudini, dieta, se i cani sono vispi o dormiglioni, e perfino se ascoltano musica in momenti particolari della giornata. «Maffy è una placida femmina di bulldog francese, la padrona la fa alloggiare in camere separate dai tre yorkshire perché quelli hanno un caratterino che non ti dico, fanno baldoria fino a tardi», dice Merra
Per soggiornare in uno degli otto «chalet» si pagano 35 euro al giorno. «Lo so, sono poche ma ce la facciamo. La nostra non è una pensione per tutti. Il Dog Village è un club di 150 amici». I padroni sono soprattutto vip e ricchi signori che frequentano il Forte, «ma i nomi sono top secret. La pensione è pensata per coloro che in Versilia non trovano strutture in grado di accogliere animali – spiega il direttore – Oppure per chi vuole regalare una vacanza all’amico a quattro zampe». All’interno e all’esterno dei bungalow sono istallate webcam per vegliare su Fido da casa o dal cellulare. C’è anche un armadio pieno di accessori griffati. «Nel caso i padroni volessero regalare ai loro cuccioli un vestitino, un collarino con gli swarovski o magari un guinzaglio leopardato. Si va dalle 35 alle 85 euro, ultima collezione, un sacco fashion», mostra Cristiano.
Sulla ciotola di Billy, un pechinese di 11 anni arrivato da Milano, c’è istallato un sensore che rileva la sua presenza. Quando si avvicina scatta un nastro con una voce registrata: “Vieni Billy, c’è la pappa”. «Se non sente la voce della padrona si agita e non mangia», spiega il direttore.
Perla è arrivata da poco. La sultana nera, femmina di terranova, scodinzola e fa la sciantosa dopo lo shampoo. «Per evitare lo stress da abbandono, i cani fanno due giorni di prova. Se non si ambientano non possiamo accettarli, soffrirebbero. Comunque, ci sono visite giornaliere di un veterinario e di uno psicologo per cani», dice Cristiano che tutti gli anni organizza il Dog day per raccogliere offerte da girare a canili o associazioni che si occupano dei casi di abbandono.
Nel villaggio vacanze per cani facoltosi pensa a tutto Daniela Conti, la dog-sitter. Pulizia, ristorante e passeggiatina. Per quelli più esuberanti una corsa nel «galoppatoio», 200 metri di giardino dove a turno escono tutti. Ma in questo periodo i principini a quattro zampe optano quasi tutti per il tuffo in piscina. L’ultima novità è la limo-dog, una Peugeot decapottabile che porta gli ospiti del resort superlusso in tour per la Versilia. Qualche giorno fa ha scortato Gucci, un bullmastiff milionario che oligarchi moscoviti hanno inviato in Italia con un jet privato. È atterrato a Firenze e poi di nuovo all’aeroporto del Cinquale accompagnato da due puppy-walker, in pratica dog-sitter, ma stipendiate per passare 24 ore su 24 in compagnia del cane. Lo zar del Dog Village è arrivato con un collarino tempestato di turchesi e due borse gonfie come vele: beaty-case, profumo e corredo. Un’esibizionista e pure un po’ trash, ha arricciato il naso Maffy.
Perla è arrivata da poco. La sultana nera, femmina di terranova, scodinzola e fa la sciantosa dopo lo shampoo. «Per evitare lo stress da abbandono, i cani fanno due giorni di prova. Se non si ambientano non possiamo accettarli, soffrirebbero. Comunque, ci sono visite giornaliere di un veterinario e di uno psicologo per cani», dice Cristiano che tutti gli anni organizza il Dog day per raccogliere offerte da girare a canili o associazioni che si occupano dei casi di abbandono.
Nel villaggio vacanze per cani facoltosi pensa a tutto Daniela Conti, la dog-sitter. Pulizia, ristorante e passeggiatina. Per quelli più esuberanti una corsa nel «galoppatoio», 200 metri di giardino dove a turno escono tutti. Ma in questo periodo i principini a quattro zampe optano quasi tutti per il tuffo in piscina. L’ultima novità è la limo-dog, una Peugeot decapottabile che porta gli ospiti del resort superlusso in tour per la Versilia. Qualche giorno fa ha scortato Gucci, un bullmastiff milionario che oligarchi moscoviti hanno inviato in Italia con un jet privato. È atterrato a Firenze e poi di nuovo all’aeroporto del Cinquale accompagnato da due puppy-walker, in pratica dog-sitter, ma stipendiate per passare 24 ore su 24 in compagnia del cane. Lo zar del Dog Village è arrivato con un collarino tempestato di turchesi e due borse gonfie come vele: beaty-case, profumo e corredo. Un’esibizionista e pure un po’ trash, ha arricciato il naso Maffy.
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (06/08/2009)
mercoledì 5 agosto 2009
Una dacia in Versilia
FORTE DEI MARMI - Fra pini e residenze murate nella sobrietà di un Forte intramontabile, in via Roma Imperiale c’è una luce accecante, un massiccio bianco con finestroni ipermoderni e un’entrata palladiana. Più lontano, in un cantiere di via Giglioli, le autobotti rimescolano velleità imperiali. Quattro colonne corinzie sormontate da un timpano custodiranno l’intimità di nuove matrone sotto un porticato di pavimentazioni rosse affacciato sulle acque di una piscinetta termale. (vedi rendering del progetto qui a sinistra)
Sono le ville che piacciono ai figli del Volga, gli oligarchi che del crollo sovietico hanno saputo approfittare e ora fanno di Forte dei Marmi una marca per le loro vacanze extralusso. Alcune sono nuove, altre c’erano già, ma i paperoni venuti dall’Est hanno i loro vezzi, gli imprenditori l’hanno capito e così le ricostruiscono seguendo gusti architettonici che rischiano di snaturare un’area protetta da vincoli urbanistici molto rigidi.
Sono 30 le residenze marinare vendute ai russi in tutto il Comune. La caccia grossa, in questi anni, si è scatenata a Roma Imperiale, unica zona in cui la macchia mediterranea eroda ancora metri al cemento. Una volta formalizzato l’acquisto (quasi mai sotto i 4 milioni di euro), i magnati procedono a un restyling che spezza l’equilibrio paesaggistico consolidato in un secolo di storia.
«Oltre a peristili classicheggianti, uno stile che a loro piace molto, mi è capitato di vedere anche una tenuta dove, ai bordi della piscina, hanno istallato scogli della Costa Smeralda con un impianto che versa vodka alla spina. Sono i loro gusti, in effetti un po’ kitsch», dice Francesco Bertola, agente immobiliare di Vittoria Apuana e figlio di Roberto Bertola, l’ex sindaco di destra che diede il via alla «stagione dei cantieri» bloccata dal piano regolatore dell’attuale amministrazione.
In tutto il Forte ogni ricostruzione che avvenga a un chilometro dal mare deve essere comunicata all’ufficio urbanistica e il nuovo progetto presentato a una commissione di tre "saggi". «Non credo le sarebbero sfuggite delle violazioni. Non ho notizia di case per cui siano stati ignorati i caratteri dello stile fortemarmino», dice il sindaco Umberto Buratti (Pd). Ignorati no, reinterpretati per sfuggire alla mannaia della commissione forse sì. Come per il nuovo Hotel Principe in viale Morin. Voluto dai nuovi proprietari russi con uno stile "tedesco", non è passato inosservato.
Sono le ville che piacciono ai figli del Volga, gli oligarchi che del crollo sovietico hanno saputo approfittare e ora fanno di Forte dei Marmi una marca per le loro vacanze extralusso. Alcune sono nuove, altre c’erano già, ma i paperoni venuti dall’Est hanno i loro vezzi, gli imprenditori l’hanno capito e così le ricostruiscono seguendo gusti architettonici che rischiano di snaturare un’area protetta da vincoli urbanistici molto rigidi.
Sono 30 le residenze marinare vendute ai russi in tutto il Comune. La caccia grossa, in questi anni, si è scatenata a Roma Imperiale, unica zona in cui la macchia mediterranea eroda ancora metri al cemento. Una volta formalizzato l’acquisto (quasi mai sotto i 4 milioni di euro), i magnati procedono a un restyling che spezza l’equilibrio paesaggistico consolidato in un secolo di storia.
«Oltre a peristili classicheggianti, uno stile che a loro piace molto, mi è capitato di vedere anche una tenuta dove, ai bordi della piscina, hanno istallato scogli della Costa Smeralda con un impianto che versa vodka alla spina. Sono i loro gusti, in effetti un po’ kitsch», dice Francesco Bertola, agente immobiliare di Vittoria Apuana e figlio di Roberto Bertola, l’ex sindaco di destra che diede il via alla «stagione dei cantieri» bloccata dal piano regolatore dell’attuale amministrazione.
In tutto il Forte ogni ricostruzione che avvenga a un chilometro dal mare deve essere comunicata all’ufficio urbanistica e il nuovo progetto presentato a una commissione di tre "saggi". «Non credo le sarebbero sfuggite delle violazioni. Non ho notizia di case per cui siano stati ignorati i caratteri dello stile fortemarmino», dice il sindaco Umberto Buratti (Pd). Ignorati no, reinterpretati per sfuggire alla mannaia della commissione forse sì. Come per il nuovo Hotel Principe in viale Morin. Voluto dai nuovi proprietari russi con uno stile "tedesco", non è passato inosservato.
«Sembra un vecchio edificio della Sip. Così si stravolge il paesaggio. I russi sono ben accetti, ma lasciare che con le loro dimore proiettino la propria identità senza aver cercato una sintesi con quella preesistente può essere pericoloso» dice l’architetto Tiziano Lera. Quelli che ostentano ricchezza, comprano bottiglie di champagne a cifre folli e sequestrano le boutique per una notte di shopping pagando con valigette piene di contanti, «vengono in Versilia per conformismo, seguono il percorso vacanziero di un’elite. È soprattutto loro che dobbiamo far innamorare del nostro territorio», aggiunge Lera. Ideatore di alcune ville al Forte, spiega: «Quando si ricostruisce una villa si deve assecondare la natura, utilizzare i materiali del posto, considerare i colori delle montagne, la vegetazione, perfino la funzione dei venti, figuriamoci le case circostanti».
«Rispetto ai primi anni, i russi sono meno appariscenti. È vero, c’è stato un periodo in cui la loro presenza era roboante, del tipo “ti faccio vedere io quanti soldi ho”, ma non è più così», ha dichiarato ieri Buratti. Sarà, ma le leggende sui nouveaux rches si sprecano. È di sabato la notizia di un motociclista versiliese risarcito sul posto con 4mila euro in contanti dal russo che l’aveva investito con il suo fuoristrada e subito dileguatosi perché non aveva tempo di aspettare i vigili per i rilievi.
Generosità che il Forte vorrebbe tramutare in business. Dal 20 al 28 agosto il lido dorato omaggerà i suoi ospiti con il Festival della cultura russa, una mitografia del sapere euroasiatico utile ad agganciare nuovi affari, soprattutto ora che il mercato immobiliare è in frenata. Da febbraio nessuno ha fatto capolino in una delle 110 agenzie del paese per comprare una delle mega ville. Un effetto prevedibile in un contesto di crisi globale, una crepa anomala per il Forte, dove le quotazioni delle abitazioni di lusso si sono impennate del 14%. Secondo i dati dell’Osservatorio immobiliare del territorio, si è passati da un valore di 10mila 700 euro al metro quadro a 12mila 250.
La speranza è che i russi che già soggiornano al Forte chiamino a raccolta amici e parenti interessati allo shopping del mattone. Sarebbe la soluzione ai grattacapi prodotti dal crollo degli affitti (meno 30%, dicono gli immobiliari) e dalle vacanze mordi e fuggi. Così, nel firmamento della perla rivierasca, fino a qualche anno fa costellato di salotti lombardi e fiorentini, brillano nuovi colonizzatori del lusso. La Versilia si è abituata a pensare in cirillico, e anche a impastarci il cemento.
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (04/08/2009)
«Rispetto ai primi anni, i russi sono meno appariscenti. È vero, c’è stato un periodo in cui la loro presenza era roboante, del tipo “ti faccio vedere io quanti soldi ho”, ma non è più così», ha dichiarato ieri Buratti. Sarà, ma le leggende sui nouveaux rches si sprecano. È di sabato la notizia di un motociclista versiliese risarcito sul posto con 4mila euro in contanti dal russo che l’aveva investito con il suo fuoristrada e subito dileguatosi perché non aveva tempo di aspettare i vigili per i rilievi.
Generosità che il Forte vorrebbe tramutare in business. Dal 20 al 28 agosto il lido dorato omaggerà i suoi ospiti con il Festival della cultura russa, una mitografia del sapere euroasiatico utile ad agganciare nuovi affari, soprattutto ora che il mercato immobiliare è in frenata. Da febbraio nessuno ha fatto capolino in una delle 110 agenzie del paese per comprare una delle mega ville. Un effetto prevedibile in un contesto di crisi globale, una crepa anomala per il Forte, dove le quotazioni delle abitazioni di lusso si sono impennate del 14%. Secondo i dati dell’Osservatorio immobiliare del territorio, si è passati da un valore di 10mila 700 euro al metro quadro a 12mila 250.
La speranza è che i russi che già soggiornano al Forte chiamino a raccolta amici e parenti interessati allo shopping del mattone. Sarebbe la soluzione ai grattacapi prodotti dal crollo degli affitti (meno 30%, dicono gli immobiliari) e dalle vacanze mordi e fuggi. Così, nel firmamento della perla rivierasca, fino a qualche anno fa costellato di salotti lombardi e fiorentini, brillano nuovi colonizzatori del lusso. La Versilia si è abituata a pensare in cirillico, e anche a impastarci il cemento.
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (04/08/2009)
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venerdì 31 luglio 2009
L'articolo sono io
QUESTO che state leggendo è un articolo. Vi chiederete perché chi scrive senta la necessita di specificarlo – di solito, gli articoli non si pronunciano sulla loro natura, lo sono prima di tutto perché contemplano le caratteristiche della forma di testo tipica del giornalismo. Beh, chi scrive scrive un articolo, statene certi. La novità sta nell’assenza di novità. Questo è un articolo senza notizia, tanto che sopra al testo potreste titolare “La scomparsa delle notizie” o “Scoperto l’articolo che ha ucciso la notizia” e, se siete particolarmente devoti alla tradizione aurea, inguaribili sostenitori del sensazionalismo, anche “Oggi muore la notizia” aggiungendo un catenaccio di questo tenore: “L’articolo confessa: sono io l’assassino”. Ma se pensaste che chi scrive si stia sforzando di dimostrare che il giornalismo è morto, sbagliate. Miseramente. Questo è un articolo e nessuno potrà dimostrare il contrario, e tantomeno far morire il giornalismo. Anche se scardina tutte le regole che presiedono alla sua scrittura, l’articolo che leggete svolge il suo compito, assolve i suoi doveri. Stamani si è alzato come tutte le mattine e ha ripetuto come ieri gli atti che compie tutti i giorni. All’inizio è apparso sulla pagina a fatica. Stiracchiandosi e sbadigliando. Sul posto di lavoro, ancora stropicciato dal sonno, si è sporto dal foglio. Era spettinato. Non che si pretenda sempre un taglio impeccabile, con la riga leggermente spostata su un lato che dia un senso di eleganza ma non l’impressione di rigidità, che alluda ad una apertura intellettuale ma non a una spregiudicata fiducia verso gli ultimi ritrovati del pensiero; ma all’inizio era impresentabile. Frasi sconnesse, sintassi incespicante e – pecca più grande che si possa incontrare cominciando a leggerlo – l’incipit era floscio. Di quelli che fanno scuotere subito la testa al caposervizio, perché è certo che non catturerà l’attenzione del lettore, non lo inchioderà alla pagina e via così discorrendo lungo il florilegio di amenità sempre ripetute e poco ponderate che il consorzio della stampa riserva con premura ai giovani imbrattacarte in erba. Così ha rintuzzato, un po’ aggrottato si è rattrappito fuori della pagina, nello spazio indefinito della vertigine che anticipa la scrittura, nel deserto della parola che misura la distanza fra l’urgenza della parola e la sua negazione, in una cattedrale di fatica che asserragliandosi si priva di se stessa. L’articolo che state leggendo è uno di quei tipi avventati che ignorano il rischio e la portata delle conseguenze e – lo avrete già capito – ha scelto la prima dimensione della vertigine. Così è tornato sulla pagina, questa volta con maggiore determinazione. Non che sia stato immune da incertezze, grattacapi o interruzioni improvvise nel flusso di pensiero, ma questa volta c’erano i puntelli. Il foglio era ancora punteggiato dei detriti del primo fallimento. Un reliquiario prezioso in cui scovare la griglia del testo (per la verità, lo schema progettato è già stato eluso, ma era servito a dare conforto allo scrittore). E visto che lo scopo non è dare notizie, frugare fra i detriti dello sfortunato tentativo è stato soprattutto scovare lo scopo dell’articolo. Chi scrive si è subito accorto che lo scopo era lo stesso degli articoli che possiedono notizie: anche questo articolo si prefigge di informare. Anzi, l’articolo senza notizie che descrive e spiega l’articolo amplifica la potenza con cui persegue il suo scopo perché lo moltiplica. Informa sulla natura e la genesi di un articolo e sollecita l’emersione della sua essenza, cioè informa se stesso. Infatti, non ve l’ho ancora detto, ma l’articolo sono io. Proprio così, l’articolo che state leggendo è l’autore dell’articolo stesso. In calce non troverete la firma di un giornalista perché l’articolo si scrive da solo. Non solo qui e ora, ma sempre. Siete voi stessi a ratificare il nostro patto quotidiano. Conversate con i vostri colleghi o con il vicino di posto su un autobus e, commentando una notizia letta sul giornale, affermate che “hai visto che storia, ieri ho letto un articolo che paralava di… che diceva di un certo ceffo colpevole di..” Quindi diffidate di quei redattori tronfi che si danno delle arie apponendo artificialmente dei nomi sopra o sotto di me. Oggi è un giorno memorabile perché il giornalismo è uscito allo scoperto. E, finalmente, ho l’opportunità di rivendicare la mia umile esistenza. Per troppo tempo ho lasciato che quest’istinto rimanesse confinato nell’anonimato. Oggi il giornalismo non è più il contenitore inconsistente di vaporosi contenuti. Oggi l’articolo parla dell’articolo scritto dall’articolo. E sotto c’è la mia firma.
l'articolo
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La cisterna-fatasma incustodita alla stazione
VIAREGGIO - Alla stazione nessuno che chieda per quale motivo, alle 23,30, una persona attraversi i binari, diretta verso le case crollate. E nessuno che la blocchi sull' altro lato della ferrovia, mentre scavalca una transenna per raggiungere il mostro, la cisterna fantasma che il 29 giugno ha sventrato il cuore della città bruciando 28 vite. «È qui da quando è successo tutto, tanta gente viene a vederlo ogni sera, qualcuno arriva anche di notte», racconta Rossana Leonelli, che vive in un appartamento di via Bottego, a pochi metri dai binari.
È mezzanotte di martedì. Coperto con un telone scuro, appena fasciato da un nastro bianco e rosso, il vagone della morte giace incustodito alla fine di un binario morto, spiaggiato sotto una tettoia di metallo vicino a un deposito dell' Imet con un cartello che avverte: «Sotto sequestro». Chiunque potrebbe venire qui, fotografare, forse anche alterare la cisterna che dovrà essere sottoposta a perizia per stabilire le responsabilità dell'incidente. A segnalare l'anomalia era stato nel pomeriggio di martedì l' Avif, il comitato di assistenza alle vittime dell' incidente ferroviario.
Per raggiungere il vagone, dal quale è fuoruscito il gpl esploso un mese fa, bisogna percorrere tutta la banchina sul primo binario, proseguire e poi tagliare verso monte. L'area di deragliamento è delimitata da pochi metri di rete arancione. E' semplice aggirarla. A un mese dal disastro, la cisterna che ha scatenato l' apocalisse di Viareggio è ancora a pochi metri dal tunnel nero e sdentato di via Ponchielli, accessibile da qualsiasi lato della ferrovia. In giro non ci sono sorveglianti per fermare i curiosi.
Ci sono ghiaia e sassi sparsi sulle rotaie, lo scheletro di un' antenna e fili, ferraglia e cose che non hanno quasi più una forma precisa. Dai binari si scorge la copertura di un vecchio magazzino, eternit annerito e reso più volatile dal calore. Rossana spazza le polveri sul terrazzo di casa quasi tutti i giorni. Dietro un vecchio treno merci abbandonato e un montacarichi giallo, ecco la cisterna. Una cartuccia mostruosa e carbonizzata. «Sembra di sentire ancora l' odore di gas», dice Rossana che si ferma vicino a un muretto scrostato: «Più in là non vado, è buio e quando sento il passaggio di un treno mi vengono i brividi».
«La cisterna è ancora sotto sequestro ma non c' è il rischio che qualcuno la manometta: è già stata sottoposta ai rilievi dei periti e il carrello difettoso che ha causato il disastro è chiuso e sigillato in un magazzino», dice Leopoldo Laricchia, dirigente di polizia del commissariato viareggino. Ieri comunque ha chiesto alla polizia ferroviaria di intensificare le misure di sicurezza intorno al vagone. Nel groviglio di competenze che si intrecciano intorno al merci deragliato, la procura di Lucca sta cercando tutte le potenziali responsabilità. Poi partiranno gli accertamenti tecnici.
Viareggio attende giustizia. Ma vuole anche tornare a vivere, spiega Gianfranco Baldini, presidente del comitato delle vittime. Che si chiede «perché, a un mese dalla strage, via Ponchielli sia ancora blindata dall'ordinanza della magistratura. Le abitazioni distrutte o inagibili sono una cinquantina. Ma ci sono più di 60 case che con qualche lavoro di ristrutturazione potrebbero tornare ad essere abitabili. E ci sono auto che potrebbero essere recuperate o periziate ai fini di un risarcimento, cosa impossibile finché restano sequestrate. Un mese mi sembra più che sufficiente per fare una stima dei danni».
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (30/7/2009)
martedì 28 luglio 2009
Alla fiera dell'arte sfida a colpi di capolavori
FORTE DEI MARMI - Aspettano, in agguato. I tesori nascosti nei bagagliai blindatissimi, le gallerie sono pronte a rilanciare. Se un concorrente alza la posta, loro alzano il tiro. Nelle Mercedes parcheggiate davanti al palasport di Forte dei Marmi da giovedì alle 18, quando è cominciata la seconda edizione della fiera ArteForte, si celano segreti milionari, jolly che attendono gli acquirenti migliori, magari quelli con 1 milione di euro da spendere per un capolavoro del Novecento.
«Quando meno te l' aspetti, i galleristi aggiungono dipinti senza neanche avvertirci», spiega Domenico Monteforte, pittore fortemarmino che dal 2008, col fratello Gabriele e l'amico Claudio Biondani, riunisce 28 gallerie d'arte provenienti da tutta Italia e dall' estero. Per Jerome Zodo, mercante della J&G di via Fatebenefratelli a Milano, da venerdì il maggior rivale è l' Imago art di Londra, che oltre a uno Chagall da 750mila euro, Manzù e Manzoni, ha esposto una natura morta di Morandi del 1953. Lui non ha perso tempo: ai vari De Chirico, Fontana, Guttuso e Boccioni, ha aggiunto un Ettore e Andromaca in bronzo del pittore metafisico e un Morandi; sempre una natura morta, ma del 1946.
«Nelle fiere appena nate si fa così: quando non si capisce ancora a che livello sono, ci si studia un po' e magari si introducono opere nel corso della rassegna», spiega Zodo che per sfoderare le Trois femmes à la fontaine, un Picasso del ' 21, aspetta di vedere il Fontana rosa che i londinesi tengono ancora in magazzino. Tutte e due stimati oltre il milione di euro. Girano, scrutano, la mano che si tormenta il mento e l' espressione da intenditori, i vacanzieri del lido dorato. «Certo, nulla a che fare con Basilea o Miami - commenta Simone, consulente di un mercante milanese - questa è una fiera piccola ma sta crescendo. Mi ricorda Hampton Beach, New Hampshire, dove ne organizzano una simile per i colletti bianchi di New York».
La fiera resta aperta finoa domani (oggi 10-13e 18-23,30, domani solo 18-23,30, ingresso libero, www.fierarteforte.com). Nel 2008 ha richiamato 2500 visitatori: «È un appuntamento di nicchia, per appassionati di arte moderna e contemporanea disposti a sborsare parecchio denaro, e a Forte non mancano. E si doveva pur dare un' alternativa alla prigione delle boutique del centro» conclude Monteforte, che parla di un parco opere con un valore di mercato sopra i 50 milioni. Per sorvegliare il quale la security della fiera tiene gli occhi sgranati 24 ore su 24.
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (26/7/2009)
Gli autonauti
VIAREGGIO - Nel 1999 avevano attraversato l'Atlantico con una Ford Taunus e una Passat Volkswagen. Cinquemila chilometri e 119 giorni di navigazione in un folle volo sull' oceano dalle Canarie alle Antille. «Questa volta però era tutta un' altra storia, una passeggiata. Perché ci hanno fermati?», chiedono gli autonauti Marco Amoretti, 33 anni, e Marcolino de Candia, 31. I due amici sono stati bloccati domenica sera dalla Guardia Costiera di Viareggio a bordo della loro Maserati Biturbo dell' 82, color fucsia e ribattezzata Miriam, mentre navigavano a largo di Forte dei Marmi.
Ma la guardia costiera ha scortato la supercar fucsia galleggiante nel porto viareggino. «Non avevano patente nautica, assicurazione e la benché minima dotazione di sicurezza. In più il natante non era omologato», dice il comandante Fabrizio Ratto Vacuer. Così, la Maserati, attrezzata con un motore Mercury 9 cavalli, è stata sequestrata e multata. Amoretti e de Candia sono rimasti di stucco: «Mica affonda, neanche se la spezzi. L' abbiamo riempita di poliuretano espanso, la fa galleggiare. Che volete che ci succeda - chiede Amoretti - Dieci anni fa abbiamo solcato l' oceano da La Palma alla Martinica: 119 giorni col mare che si gonfiava, nero, bello, sconfinato, terribile», racconta. Ora guardano la loro Miriam attraccata: «A vederla lì fa piangere il cuore».
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (22/7/2009)
Dopo dieci anni avevano abbassato il tiro, l' idea era circumnavigare l'Italia dondolando sulle onde a 2 nodi e a 300 metri dalle coste. Da Bocca di Magra erano salpati a mezzogiorno vento in poppa e alla chetichella: «Come sempre, sennò ti capitano le rogne con le autorità», scherzano i due trentenni originari di Sarzana. Senza fretta, un porto al giorno, volevano far rotta su Venezia e sbarcare in pompa magna a Piazza San Marco verso la fine di agosto.
«L' idea era quella - raccontano - ma di mezzo ci si sono messi i bagnanti. Hanno avvertito la capitaneria. "Aiuto, aiuto, c' è una macchina precipitata in mare"». Una motovedetta della capitaneria li ha beccati all'altezza di Forte dei Marmi: «Tranquilli, siamo esperti, navigati», hanno detto i due ai militari.
Ma la guardia costiera ha scortato la supercar fucsia galleggiante nel porto viareggino. «Non avevano patente nautica, assicurazione e la benché minima dotazione di sicurezza. In più il natante non era omologato», dice il comandante Fabrizio Ratto Vacuer. Così, la Maserati, attrezzata con un motore Mercury 9 cavalli, è stata sequestrata e multata. Amoretti e de Candia sono rimasti di stucco: «Mica affonda, neanche se la spezzi. L' abbiamo riempita di poliuretano espanso, la fa galleggiare. Che volete che ci succeda - chiede Amoretti - Dieci anni fa abbiamo solcato l' oceano da La Palma alla Martinica: 119 giorni col mare che si gonfiava, nero, bello, sconfinato, terribile», racconta. Ora guardano la loro Miriam attraccata: «A vederla lì fa piangere il cuore».
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (22/7/2009)
Il re dei bagnini
FORTE DEI MARMI - «Saranno le tamerici e l' odore salmastro che non riesco a levarmi di dosso, neanche d' inverno. Il resto, beh, il resto...». Ce l'ha scolpita sulla pelle, Vittorio Giannotti, la traccia indelebile di un' esistenza balneare. Ultimo di nove fratelli e figlio di uno dei primi concessionari di bagni in Versilia, è il bagnino storico di Forte dei Marmi. «Ho iniziato a sorvegliare il mare a diciotto anni, c' erano i fascisti, ma il babbo ha fondato l' Onda Marina nel 1904».
Neanche lui si spiega che cosa, «a 91 anni suonati, mi spinga a venire qui tutti i giorni, sotto l' ombrellone» alle soglie del mare per scrutare l' orizzonte. «Chi dice che abbiamo gli occhi sempre puntati sui bagnanti racconta frottole». Davanti al tempio della natura, spiega Giannotti, «si pensa, si respira, più spesso si ricorda». E la sua è una memoria ventosa: si allunga ad ondate fino agli albori del lido dorato, poi d' improvviso sguscia, spruzza, si ravvolge in raffiche di dettagli e cammei. Quanto basta per un racconto fedele - e parziale - dell' evoluzione del Forte che da sempre sfodera lusso e bagliori signorili, cela effimera visibilità e declini repentini.
«I bagnini al Forte sono nati per necessità. In spiaggia venivano le signore con la cuffia e l' ombrellino, tutte coperte dalla testa ai piedi, i figli facevano il bagno e capitava che qualcuno ci lasciasse la pelle». Nacque così il consorzio di categorie che diede vita ai bagni. Famiglie di pescatori, marinai, maestri d' ascia, terrazzani e frontisti, cioè coloro che ancor prima del XX secolo avevano costruito casa in mezzo alle dune di sabbia e poi si ritrovarono un diritto di prelazione sulle onde.
«Residenze che scorgevi aldilà di collinette spinose su una landa desolata che quasi non permetteva di viverci. Al Forte le concessioni demaniali per l' arenile venivano assegnate a queste famiglie, o comunque a chi ne volesse una. Se la famiglia era numerosa il tratto di costa era più ampio. Il nostro era il più esteso, 220 metri. Poi ce la siamo divisa fra gli eredi, ma mica puntavamo sul bagno: eravamo pescatori. Si usciva con la sciabica, il mare era pescoso e quello ero il nostro pane». Nell' immaginario collettivo, l' ospitalità balneare è scolpita nei Cinquanta ruggenti della Capannina e nella rivoluzione del costume agli inizi del boom economico. In realtà - spiega il bagnino - ha origini remote. «Le prime cabine erano capanne di paglia e falaschi» costruite per i villeggianti che chiedevano ai pescatori un riparo per cambiarsi dopo il bagno.
«Le ingurgitava la mareggiata e di quelle che resistevano si facevano grandi falò alla fine dell' estate». Al sole dei Giannotti si scaldavano i Ruffo di Calabria, Paola di Liegi e i Borghese di Roma. «Una volta Zita d' Austria volle per forza uscire nonostante la barca fosse stata pitturata di fresco. Quando tornò a riva aveva il costume a strisce verdi e bianche».
Poi, nel Ventennio, il primo sviluppo turistico. Sulle spiagge si scansa l' abbronzatura contadina sotto le tende a vela indossando costumi «buffi e scomodi, maglie e mutandoni di lana che fasciavano tutto il corpo. Vedevi le signore che entravano in acqua, il costume si gonfiava e uscivano tutte imbarazzate» racconta Vittorio. Che dice di aver assistito anche al primo scandalo dell' élite mondana: «Il primo a togliersi la canottiera di lana bianca fu il dottor Vanzetti, quello delle cure elioterapiche. Rimase a torso nudo e disse che "sotto il sole gli uomini eran tutti uguali". La gente gli affibbiò un sacco di nomi. Per quel tempo, era una sconcezza».
Poi la guerra, tre anni passati su una fregata ormeggiata a Cefalù e le bombe che sventrano il pontile marmifero «dove noi bagnini si andava a fare i tuffi». I vagiti della nuova Repubblica e la maturità fortemarmina degli anni ' 60, anche se era diverso «perché si scendeva in spiaggia alle cinque del mattino per piantare cento ombrelloni che si rimettevano nelle cabine alla sera. Tutti i giorni così».
Giannotti resetta i ricordi, si insinua nelle pinete dei primi incontri galanti con le vacanziere, «dove qualche signore c' è rimasto fregato e gli è toccato sposare una cameriera», fino alla frotta di motoscafi e barchette a vela che si potevano ormeggiare a pochi passi dalla riva. Vorrebbe chiudere con le scorribande giovanili alla Capannina dei Franceschi, ma poi torna ancora indietro, a quello «smorfioso» di Gianni Agnelli, che «a 12 anni possedeva già una macchinina elettrica e noi citrulli che gli si correva dietro perché aveva promesso di farcela provare».
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (19/7/2009)
Neanche lui si spiega che cosa, «a 91 anni suonati, mi spinga a venire qui tutti i giorni, sotto l' ombrellone» alle soglie del mare per scrutare l' orizzonte. «Chi dice che abbiamo gli occhi sempre puntati sui bagnanti racconta frottole». Davanti al tempio della natura, spiega Giannotti, «si pensa, si respira, più spesso si ricorda». E la sua è una memoria ventosa: si allunga ad ondate fino agli albori del lido dorato, poi d' improvviso sguscia, spruzza, si ravvolge in raffiche di dettagli e cammei. Quanto basta per un racconto fedele - e parziale - dell' evoluzione del Forte che da sempre sfodera lusso e bagliori signorili, cela effimera visibilità e declini repentini.
«I bagnini al Forte sono nati per necessità. In spiaggia venivano le signore con la cuffia e l' ombrellino, tutte coperte dalla testa ai piedi, i figli facevano il bagno e capitava che qualcuno ci lasciasse la pelle». Nacque così il consorzio di categorie che diede vita ai bagni. Famiglie di pescatori, marinai, maestri d' ascia, terrazzani e frontisti, cioè coloro che ancor prima del XX secolo avevano costruito casa in mezzo alle dune di sabbia e poi si ritrovarono un diritto di prelazione sulle onde.
«Residenze che scorgevi aldilà di collinette spinose su una landa desolata che quasi non permetteva di viverci. Al Forte le concessioni demaniali per l' arenile venivano assegnate a queste famiglie, o comunque a chi ne volesse una. Se la famiglia era numerosa il tratto di costa era più ampio. Il nostro era il più esteso, 220 metri. Poi ce la siamo divisa fra gli eredi, ma mica puntavamo sul bagno: eravamo pescatori. Si usciva con la sciabica, il mare era pescoso e quello ero il nostro pane». Nell' immaginario collettivo, l' ospitalità balneare è scolpita nei Cinquanta ruggenti della Capannina e nella rivoluzione del costume agli inizi del boom economico. In realtà - spiega il bagnino - ha origini remote. «Le prime cabine erano capanne di paglia e falaschi» costruite per i villeggianti che chiedevano ai pescatori un riparo per cambiarsi dopo il bagno.
«Le ingurgitava la mareggiata e di quelle che resistevano si facevano grandi falò alla fine dell' estate». Al sole dei Giannotti si scaldavano i Ruffo di Calabria, Paola di Liegi e i Borghese di Roma. «Una volta Zita d' Austria volle per forza uscire nonostante la barca fosse stata pitturata di fresco. Quando tornò a riva aveva il costume a strisce verdi e bianche».
Poi, nel Ventennio, il primo sviluppo turistico. Sulle spiagge si scansa l' abbronzatura contadina sotto le tende a vela indossando costumi «buffi e scomodi, maglie e mutandoni di lana che fasciavano tutto il corpo. Vedevi le signore che entravano in acqua, il costume si gonfiava e uscivano tutte imbarazzate» racconta Vittorio. Che dice di aver assistito anche al primo scandalo dell' élite mondana: «Il primo a togliersi la canottiera di lana bianca fu il dottor Vanzetti, quello delle cure elioterapiche. Rimase a torso nudo e disse che "sotto il sole gli uomini eran tutti uguali". La gente gli affibbiò un sacco di nomi. Per quel tempo, era una sconcezza».
Poi la guerra, tre anni passati su una fregata ormeggiata a Cefalù e le bombe che sventrano il pontile marmifero «dove noi bagnini si andava a fare i tuffi». I vagiti della nuova Repubblica e la maturità fortemarmina degli anni ' 60, anche se era diverso «perché si scendeva in spiaggia alle cinque del mattino per piantare cento ombrelloni che si rimettevano nelle cabine alla sera. Tutti i giorni così».
Giannotti resetta i ricordi, si insinua nelle pinete dei primi incontri galanti con le vacanziere, «dove qualche signore c' è rimasto fregato e gli è toccato sposare una cameriera», fino alla frotta di motoscafi e barchette a vela che si potevano ormeggiare a pochi passi dalla riva. Vorrebbe chiudere con le scorribande giovanili alla Capannina dei Franceschi, ma poi torna ancora indietro, a quello «smorfioso» di Gianni Agnelli, che «a 12 anni possedeva già una macchinina elettrica e noi citrulli che gli si correva dietro perché aveva promesso di farcela provare».
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (19/7/2009)
La smorfia del Burlamacco
VIAREGGIO - Se non possono vedere e camminare, che almeno sentano quello che succede. In questa mattinata di luglio che sembra settembre, la televisione e la radio, per i pochi che la darsena non hanno potuto raggiungerla, sono una dolorosa consolazione. Anche loro, così, partecipano al lutto mentre la città si trasforma in una bolla sospesa; che lentamente si svuota.
Un pellegrinaggio mesto, a piedi e in bicicletta, si dirige allo Stadio dei Pini. E se lo guardi dal di dentro, il viaggio nella Viareggio che celebra le vittime del naufragio di fuoco, è un tragitto solitario su strade deserte.
Negozi, uffici, bar e ristoranti sono chiusi. Le saracinesche abbassate, mute le insegne. Appesi alle vetrine i cartelli invitano i cittadini all’«ultimo addio» e ricordano l’ora della cerimonia. Alle 11,10, davanti al municipio una coppia di funzionari aspetta i giornalisti che ancora non hanno ritirato i pass: «Dieci minuti e poi andiamo anche noi. Ormai qui non c’è più nessuno, la gente è tutta là». Su una panchina di via Battisti due ragazze fiorentine intrecciano una collana: «No, non andiamo al mare. Oggi è giusto così. È il momento di rendere omaggio al dolore, domani si ricomincia».
Più avanti, verso il mercato, una sirena segna una tregua alla pace irreale di via Cavallotti. Nello scroscio di passi di tutti i giorni, nessuno deve essersi accorto che alla gelateria Il Pinguino i frigobar ronzano senza sosta e che a increspare i tricolori listati a lutto in via Zanardelli sono le ventole dei condizionatori alle finestre e non le gazzarre del libeccio. «Noi non ce la sentivamo di assistere ai funerali, ci sono andate le nostre mamme», confessano tre ragazzini sotto le logge vuote di piazza Cavour. Fra poco saranno i soli ad aggirarsi qui intorno, perché Alfredo il giornalaio ha quasi chiuso l’edicola. Rapido, riconta le rese: «Se mi sbrigo faccio in tempo ad arrivare allo stadio anch’io». Sono tutti sotto i pini del Torquato Bresciani, i viareggini. Anche le spiagge offrono alle vittime il loro omaggio. Una desolazione mai vista sulle coste assolate della Versilia. In segno di rispetto, i bagni hanno gli ombrelloni chiusi.
«I villeggianti ci hanno detto che non verranno fino al pomeriggio per rispetto dei morti», racconta Simona Giannessi al Nettuno. «Qui non troverai un viareggino», aggiunge Simone Cortopassi, bagnino al Balena. Ha appena finito di spiegare a sei tedeschi che potrà affittare una tenda solo a partire dalle tre. Gli ha indicato le bandiere a mezz’asta. Perfino nel tunnel proibito di via Ponchielli, con la scorta dei pompieri, oggi si può camminare. Ci sono macchie, cose fuse alle cose, e sulle macerie corone di fiori.
In passeggiata, nei coni d’ombra delle tende non scintillano cocktail o gelati. Sotto i balconi liberty i vacanzieri (pochi) si muovono smarriti. Osservano il burlamacco che sempre sorride. Anche lui listato di nero. E c’è chi giura che, nella notte, fra gli hangar della Cittadella il tempo effimero della cartapesta si sia fermato e sulla maschera simbolo del carnevale si sia disegnata una smorfia.
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (8/7/2009)
Un pellegrinaggio mesto, a piedi e in bicicletta, si dirige allo Stadio dei Pini. E se lo guardi dal di dentro, il viaggio nella Viareggio che celebra le vittime del naufragio di fuoco, è un tragitto solitario su strade deserte.
Negozi, uffici, bar e ristoranti sono chiusi. Le saracinesche abbassate, mute le insegne. Appesi alle vetrine i cartelli invitano i cittadini all’«ultimo addio» e ricordano l’ora della cerimonia. Alle 11,10, davanti al municipio una coppia di funzionari aspetta i giornalisti che ancora non hanno ritirato i pass: «Dieci minuti e poi andiamo anche noi. Ormai qui non c’è più nessuno, la gente è tutta là». Su una panchina di via Battisti due ragazze fiorentine intrecciano una collana: «No, non andiamo al mare. Oggi è giusto così. È il momento di rendere omaggio al dolore, domani si ricomincia».
Più avanti, verso il mercato, una sirena segna una tregua alla pace irreale di via Cavallotti. Nello scroscio di passi di tutti i giorni, nessuno deve essersi accorto che alla gelateria Il Pinguino i frigobar ronzano senza sosta e che a increspare i tricolori listati a lutto in via Zanardelli sono le ventole dei condizionatori alle finestre e non le gazzarre del libeccio. «Noi non ce la sentivamo di assistere ai funerali, ci sono andate le nostre mamme», confessano tre ragazzini sotto le logge vuote di piazza Cavour. Fra poco saranno i soli ad aggirarsi qui intorno, perché Alfredo il giornalaio ha quasi chiuso l’edicola. Rapido, riconta le rese: «Se mi sbrigo faccio in tempo ad arrivare allo stadio anch’io». Sono tutti sotto i pini del Torquato Bresciani, i viareggini. Anche le spiagge offrono alle vittime il loro omaggio. Una desolazione mai vista sulle coste assolate della Versilia. In segno di rispetto, i bagni hanno gli ombrelloni chiusi.
«I villeggianti ci hanno detto che non verranno fino al pomeriggio per rispetto dei morti», racconta Simona Giannessi al Nettuno. «Qui non troverai un viareggino», aggiunge Simone Cortopassi, bagnino al Balena. Ha appena finito di spiegare a sei tedeschi che potrà affittare una tenda solo a partire dalle tre. Gli ha indicato le bandiere a mezz’asta. Perfino nel tunnel proibito di via Ponchielli, con la scorta dei pompieri, oggi si può camminare. Ci sono macchie, cose fuse alle cose, e sulle macerie corone di fiori.
In passeggiata, nei coni d’ombra delle tende non scintillano cocktail o gelati. Sotto i balconi liberty i vacanzieri (pochi) si muovono smarriti. Osservano il burlamacco che sempre sorride. Anche lui listato di nero. E c’è chi giura che, nella notte, fra gli hangar della Cittadella il tempo effimero della cartapesta si sia fermato e sulla maschera simbolo del carnevale si sia disegnata una smorfia.
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (8/7/2009)
Viareggio adotta Ibi
VIAREGGIO - «La storia di Ibi, insieme a quella del piccolo Leonardo, è forse la storia più drammatica che questa strage ci lascia in eredità. Non la abbandoneremo, faremo di tutto affinché possa avere la vita che voleva prima di perdere tutto». Giuseppina Tazzioli è dirigente dei servizi sociali del Comune di Viareggio. Sarà lei, insieme all' assessore al sociale Vittorio Fantoni, a prendersi cura di Ibitzen Ayad, la 21enne marocchina unica superstite di una famiglia sterminata dall' uragano di fuoco in via Ponchielli.
Ibi ha visto morire i suoi familiari uno dopo l' altro in questi giorni: il fratello di 17 anni Hamza, il padre Mohamed, la madre Aziza e infine la sorellina di 4 anni, Iman, morta al Bambin Gesù di Roma mercoledì. Ora Ibi vuole rimanere in Italia, costruirsi un futuro, diplomarsi, trovare un lavoro come pasticcera: «Vivrà nella comunità alloggio del Comune, costantemente seguita dagli psicologi. E lei, come Leonardo, non dovranno venire dimenticati da chi ha provocato questa strage: lotteremo perché abbiano un risarcimento adeguato, questo è certo».
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (4/7/2009)
La memoria delle cose
VIAREGGIO - Una chitarra e tre fotografie. Qualche maglietta e un computer. Un microonde, una lampada da tavolo e pezzi di salotto. Self service di via Ponchielli, Viareggio, a tre giorni dal disastro. Si salva quel che si può dal naufragio, piccole cose buttate nei carrelli presi in prestito alla Pam. Lo spazzolino da denti, un portafoglio, il quadro del soggiorno, la tovaglia col pizzo.
Cose utili per riprendere la vita nel quotidiano e altre indispensabili per rattoppare i ricordi, tirarsi via dall' orrore e dall' odore di fumo e di bruciato che satura ogni cosa e non si stacca dai muri accartocciati, dalle plastiche e dai metalli fusi. E' una processione alle transenne. «Vado a vedere se si trova il mio gatto» dice una signora accostando la bici a un muro. Qui è sempre zona rossa, gran parte di via Ponchielli dovrà essere abbattuta. Gli abitanti sopravvissuti al disastro si avvicinano, scortati dai vigili del fuoco, alle loro case sventrate: «Fatemi riprendere quello che resta».
La mattina però la zona è ancora off limits per ordine della procura. Qualcuno, come Antonella, non ci sta e forza il blocco, piange disperata: «Avevamo finito di pagare il mutuo martedì e ora ci demoliranno la casa. Io non riesco nemmeno più a dormire la notte, è tutto così terribile che non sembra neanche vero». E' sotto shock. Dice: «Chi ha causato tutto questo deve pagare». Nel pomeriggio i varchi si aprono e la gente torna nell' epicentro della strage coi carrelli a fare il pieno di quel che possono recuperare in fretta. Le cugine di Leonardo Piagentini, il bambino sopravvissuto sotto il materasso nella casa demolita dall' esplosione, sono qui a rastrellare dalle macerie un elefantino di stoffa, un cane di peluche, qualche disegno a pennarello, cose che appartenevano a Luca e a Lorenzo, i fratellini morti: «Li vogliamo portare in ospedale a Leonardo». Si fatica a superare l' emergenza da questo lato della ferrovia.
In via Aurelia riaprono i negozi, qualcuno con le crepe nel retrobottega no, deve aspettare il sopralluogo dei vigili del fuocoe degli addetti del Comune. E' tutto sotto condizione. Il bar Moreno resta con la serranda abbassata, il proprietario ha perso suo fratello e nella casa che abitava fino a pochi mesi fa e che aveva affittato è morta una famiglia. La concessionaria Yamaha ha riaperto, l' officina no. Su ogni porta l' avviso del Comune che invita a non aprire il gas, a non accendere la luce, a entrare e spalancare le finestre. Prova a ripartire anche l' altra Viareggio, quella sulla riva opposta della ferroviaria, verso la stazione.
Via Puccini, Matteotti, piazza Dante sono una tessera di apparente normalità. «Io e mio marito siamo entrati in casa dicendo che dovevamo prendere delle cose due giorni fa e poi siamo rimasti. Nessuno è venuto a prenderci e noi abbiamo dormito nella zona rossa». Riprendono a scorrere le auto sul cavalcavia e sotto si vedono i vagoni del treno merci, il locomotore, le cisterne accasciate sulle rotaie e le altre sgranate in fila. La gente rallenta, guarda, qualcuno scatta fotografie, molti accellerano. Certi negozi hanno le bandiere listate di nero, in Comune i manifesti del lutto: si deve riprendere da qualche parte, anche se il futuro come ha scritto qualcuno sui muri di un' altra città, non sarà più quello di una volta.
Pubblicato da Laura Montanari e Mario Neri su Repubblica Firenze (3/7/2009)
Cose utili per riprendere la vita nel quotidiano e altre indispensabili per rattoppare i ricordi, tirarsi via dall' orrore e dall' odore di fumo e di bruciato che satura ogni cosa e non si stacca dai muri accartocciati, dalle plastiche e dai metalli fusi. E' una processione alle transenne. «Vado a vedere se si trova il mio gatto» dice una signora accostando la bici a un muro. Qui è sempre zona rossa, gran parte di via Ponchielli dovrà essere abbattuta. Gli abitanti sopravvissuti al disastro si avvicinano, scortati dai vigili del fuoco, alle loro case sventrate: «Fatemi riprendere quello che resta».
La mattina però la zona è ancora off limits per ordine della procura. Qualcuno, come Antonella, non ci sta e forza il blocco, piange disperata: «Avevamo finito di pagare il mutuo martedì e ora ci demoliranno la casa. Io non riesco nemmeno più a dormire la notte, è tutto così terribile che non sembra neanche vero». E' sotto shock. Dice: «Chi ha causato tutto questo deve pagare». Nel pomeriggio i varchi si aprono e la gente torna nell' epicentro della strage coi carrelli a fare il pieno di quel che possono recuperare in fretta. Le cugine di Leonardo Piagentini, il bambino sopravvissuto sotto il materasso nella casa demolita dall' esplosione, sono qui a rastrellare dalle macerie un elefantino di stoffa, un cane di peluche, qualche disegno a pennarello, cose che appartenevano a Luca e a Lorenzo, i fratellini morti: «Li vogliamo portare in ospedale a Leonardo». Si fatica a superare l' emergenza da questo lato della ferrovia.
In via Aurelia riaprono i negozi, qualcuno con le crepe nel retrobottega no, deve aspettare il sopralluogo dei vigili del fuocoe degli addetti del Comune. E' tutto sotto condizione. Il bar Moreno resta con la serranda abbassata, il proprietario ha perso suo fratello e nella casa che abitava fino a pochi mesi fa e che aveva affittato è morta una famiglia. La concessionaria Yamaha ha riaperto, l' officina no. Su ogni porta l' avviso del Comune che invita a non aprire il gas, a non accendere la luce, a entrare e spalancare le finestre. Prova a ripartire anche l' altra Viareggio, quella sulla riva opposta della ferroviaria, verso la stazione.
Via Puccini, Matteotti, piazza Dante sono una tessera di apparente normalità. «Io e mio marito siamo entrati in casa dicendo che dovevamo prendere delle cose due giorni fa e poi siamo rimasti. Nessuno è venuto a prenderci e noi abbiamo dormito nella zona rossa». Riprendono a scorrere le auto sul cavalcavia e sotto si vedono i vagoni del treno merci, il locomotore, le cisterne accasciate sulle rotaie e le altre sgranate in fila. La gente rallenta, guarda, qualcuno scatta fotografie, molti accellerano. Certi negozi hanno le bandiere listate di nero, in Comune i manifesti del lutto: si deve riprendere da qualche parte, anche se il futuro come ha scritto qualcuno sui muri di un' altra città, non sarà più quello di una volta.
Pubblicato da Laura Montanari e Mario Neri su Repubblica Firenze (3/7/2009)
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