venerdì 31 luglio 2009

L'articolo sono io

QUESTO che state leggendo è un articolo. Vi chiederete perché chi scrive senta la necessita di specificarlo – di solito, gli articoli non si pronunciano sulla loro natura, lo sono prima di tutto perché contemplano le caratteristiche della forma di testo tipica del giornalismo. Beh, chi scrive scrive un articolo, statene certi. La novità sta nell’assenza di novità. Questo è un articolo senza notizia, tanto che sopra al testo potreste titolare “La scomparsa delle notizie” o “Scoperto l’articolo che ha ucciso la notizia” e, se siete particolarmente devoti alla tradizione aurea, inguaribili sostenitori del sensazionalismo, anche “Oggi muore la notizia” aggiungendo un catenaccio di questo tenore: “L’articolo confessa: sono io l’assassino”. Ma se pensaste che chi scrive si stia sforzando di dimostrare che il giornalismo è morto, sbagliate. Miseramente. Questo è un articolo e nessuno potrà dimostrare il contrario, e tantomeno far morire il giornalismo. Anche se scardina tutte le regole che presiedono alla sua scrittura, l’articolo che leggete svolge il suo compito, assolve i suoi doveri. Stamani si è alzato come tutte le mattine e ha ripetuto come ieri gli atti che compie tutti i giorni. All’inizio è apparso sulla pagina a fatica. Stiracchiandosi e sbadigliando. Sul posto di lavoro, ancora stropicciato dal sonno, si è sporto dal foglio. Era spettinato. Non che si pretenda sempre un taglio impeccabile, con la riga leggermente spostata su un lato che dia un senso di eleganza ma non l’impressione di rigidità, che alluda ad una apertura intellettuale ma non a una spregiudicata fiducia verso gli ultimi ritrovati del pensiero; ma all’inizio era impresentabile. Frasi sconnesse, sintassi incespicante e – pecca più grande che si possa incontrare cominciando a leggerlo – l’incipit era floscio. Di quelli che fanno scuotere subito la testa al caposervizio, perché è certo che non catturerà l’attenzione del lettore, non lo inchioderà alla pagina e via così discorrendo lungo il florilegio di amenità sempre ripetute e poco ponderate che il consorzio della stampa riserva con premura ai giovani imbrattacarte in erba. Così ha rintuzzato, un po’ aggrottato si è rattrappito fuori della pagina, nello spazio indefinito della vertigine che anticipa la scrittura, nel deserto della parola che misura la distanza fra l’urgenza della parola e la sua negazione, in una cattedrale di fatica che asserragliandosi si priva di se stessa. L’articolo che state leggendo è uno di quei tipi avventati che ignorano il rischio e la portata delle conseguenze e – lo avrete già capito – ha scelto la prima dimensione della vertigine. Così è tornato sulla pagina, questa volta con maggiore determinazione. Non che sia stato immune da incertezze, grattacapi o interruzioni improvvise nel flusso di pensiero, ma questa volta c’erano i puntelli. Il foglio era ancora punteggiato dei detriti del primo fallimento. Un reliquiario prezioso in cui scovare la griglia del testo (per la verità, lo schema progettato è già stato eluso, ma era servito a dare conforto allo scrittore). E visto che lo scopo non è dare notizie, frugare fra i detriti dello sfortunato tentativo è stato soprattutto scovare lo scopo dell’articolo. Chi scrive si è subito accorto che lo scopo era lo stesso degli articoli che possiedono notizie: anche questo articolo si prefigge di informare. Anzi, l’articolo senza notizie che descrive e spiega l’articolo amplifica la potenza con cui persegue il suo scopo perché lo moltiplica. Informa sulla natura e la genesi di un articolo e sollecita l’emersione della sua essenza, cioè informa se stesso. Infatti, non ve l’ho ancora detto, ma l’articolo sono io. Proprio così, l’articolo che state leggendo è l’autore dell’articolo stesso. In calce non troverete la firma di un giornalista perché l’articolo si scrive da solo. Non solo qui e ora, ma sempre. Siete voi stessi a ratificare il nostro patto quotidiano. Conversate con i vostri colleghi o con il vicino di posto su un autobus e, commentando una notizia letta sul giornale, affermate che “hai visto che storia, ieri ho letto un articolo che paralava di… che diceva di un certo ceffo colpevole di..” Quindi diffidate di quei redattori tronfi che si danno delle arie apponendo artificialmente dei nomi sopra o sotto di me. Oggi è un giorno memorabile perché il giornalismo è uscito allo scoperto. E, finalmente, ho l’opportunità di rivendicare la mia umile esistenza. Per troppo tempo ho lasciato che quest’istinto rimanesse confinato nell’anonimato. Oggi il giornalismo non è più il contenitore inconsistente di vaporosi contenuti. Oggi l’articolo parla dell’articolo scritto dall’articolo. E sotto c’è la mia firma.


l'articolo

La cisterna-fatasma incustodita alla stazione

VIAREGGIO - Alla stazione nessuno che chieda per quale motivo, alle 23,30, una persona attraversi i binari, diretta verso le case crollate. E nessuno che la blocchi sull' altro lato della ferrovia, mentre scavalca una transenna per raggiungere il mostro, la cisterna fantasma che il 29 giugno ha sventrato il cuore della città bruciando 28 vite. «È qui da quando è successo tutto, tanta gente viene a vederlo ogni sera, qualcuno arriva anche di notte», racconta Rossana Leonelli, che vive in un appartamento di via Bottego, a pochi metri dai binari.

È mezzanotte di martedì. Coperto con un telone scuro, appena fasciato da un nastro bianco e rosso, il vagone della morte giace incustodito alla fine di un binario morto, spiaggiato sotto una tettoia di metallo vicino a un deposito dell' Imet con un cartello che avverte: «Sotto sequestro». Chiunque potrebbe venire qui, fotografare, forse anche alterare la cisterna che dovrà essere sottoposta a perizia per stabilire le responsabilità dell'incidente. A segnalare l'anomalia era stato nel pomeriggio di martedì l' Avif, il comitato di assistenza alle vittime dell' incidente ferroviario.

Per raggiungere il vagone, dal quale è fuoruscito il gpl esploso un mese fa, bisogna percorrere tutta la banchina sul primo binario, proseguire e poi tagliare verso monte. L'area di deragliamento è delimitata da pochi metri di rete arancione. E' semplice aggirarla. A un mese dal disastro, la cisterna che ha scatenato l' apocalisse di Viareggio è ancora a pochi metri dal tunnel nero e sdentato di via Ponchielli, accessibile da qualsiasi lato della ferrovia. In giro non ci sono sorveglianti per fermare i curiosi.

Ci sono ghiaia e sassi sparsi sulle rotaie, lo scheletro di un' antenna e fili, ferraglia e cose che non hanno quasi più una forma precisa. Dai binari si scorge la copertura di un vecchio magazzino, eternit annerito e reso più volatile dal calore. Rossana spazza le polveri sul terrazzo di casa quasi tutti i giorni. Dietro un vecchio treno merci abbandonato e un montacarichi giallo, ecco la cisterna. Una cartuccia mostruosa e carbonizzata. «Sembra di sentire ancora l' odore di gas», dice Rossana che si ferma vicino a un muretto scrostato: «Più in là non vado, è buio e quando sento il passaggio di un treno mi vengono i brividi».
«La cisterna è ancora sotto sequestro ma non c' è il rischio che qualcuno la manometta: è già stata sottoposta ai rilievi dei periti e il carrello difettoso che ha causato il disastro è chiuso e sigillato in un magazzino», dice Leopoldo Laricchia, dirigente di polizia del commissariato viareggino. Ieri comunque ha chiesto alla polizia ferroviaria di intensificare le misure di sicurezza intorno al vagone. Nel groviglio di competenze che si intrecciano intorno al merci deragliato, la procura di Lucca sta cercando tutte le potenziali responsabilità. Poi partiranno gli accertamenti tecnici.

Viareggio attende giustizia. Ma vuole anche tornare a vivere, spiega Gianfranco Baldini, presidente del comitato delle vittime. Che si chiede «perché, a un mese dalla strage, via Ponchielli sia ancora blindata dall'ordinanza della magistratura. Le abitazioni distrutte o inagibili sono una cinquantina. Ma ci sono più di 60 case che con qualche lavoro di ristrutturazione potrebbero tornare ad essere abitabili. E ci sono auto che potrebbero essere recuperate o periziate ai fini di un risarcimento, cosa impossibile finché restano sequestrate. Un mese mi sembra più che sufficiente per fare una stima dei danni».



Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (30/7/2009)

martedì 28 luglio 2009

Alla fiera dell'arte sfida a colpi di capolavori

FORTE DEI MARMI - Aspettano, in agguato. I tesori nascosti nei bagagliai blindatissimi, le gallerie sono pronte a rilanciare. Se un concorrente alza la posta, loro alzano il tiro. Nelle Mercedes parcheggiate davanti al palasport di Forte dei Marmi da giovedì alle 18, quando è cominciata la seconda edizione della fiera ArteForte, si celano segreti milionari, jolly che attendono gli acquirenti migliori, magari quelli con 1 milione di euro da spendere per un capolavoro del Novecento.

«Quando meno te l' aspetti, i galleristi aggiungono dipinti senza neanche avvertirci», spiega Domenico Monteforte, pittore fortemarmino che dal 2008, col fratello Gabriele e l'amico Claudio Biondani, riunisce 28 gallerie d'arte provenienti da tutta Italia e dall' estero. Per Jerome Zodo, mercante della J&G di via Fatebenefratelli a Milano, da venerdì il maggior rivale è l' Imago art di Londra, che oltre a uno Chagall da 750mila euro, Manzù e Manzoni, ha esposto una natura morta di Morandi del 1953. Lui non ha perso tempo: ai vari De Chirico, Fontana, Guttuso e Boccioni, ha aggiunto un Ettore e Andromaca in bronzo del pittore metafisico e un Morandi; sempre una natura morta, ma del 1946.

«Nelle fiere appena nate si fa così: quando non si capisce ancora a che livello sono, ci si studia un po' e magari si introducono opere nel corso della rassegna», spiega Zodo che per sfoderare le Trois femmes à la fontaine, un Picasso del ' 21, aspetta di vedere il Fontana rosa che i londinesi tengono ancora in magazzino. Tutte e due stimati oltre il milione di euro. Girano, scrutano, la mano che si tormenta il mento e l' espressione da intenditori, i vacanzieri del lido dorato. «Certo, nulla a che fare con Basilea o Miami - commenta Simone, consulente di un mercante milanese - questa è una fiera piccola ma sta crescendo. Mi ricorda Hampton Beach, New Hampshire, dove ne organizzano una simile per i colletti bianchi di New York».

La fiera resta aperta finoa domani (oggi 10-13e 18-23,30, domani solo 18-23,30, ingresso libero, www.fierarteforte.com). Nel 2008 ha richiamato 2500 visitatori: «È un appuntamento di nicchia, per appassionati di arte moderna e contemporanea disposti a sborsare parecchio denaro, e a Forte non mancano. E si doveva pur dare un' alternativa alla prigione delle boutique del centro» conclude Monteforte, che parla di un parco opere con un valore di mercato sopra i 50 milioni. Per sorvegliare il quale la security della fiera tiene gli occhi sgranati 24 ore su 24.

Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (26/7/2009)

Gli autonauti

VIAREGGIO - Nel 1999 avevano attraversato l'Atlantico con una Ford Taunus e una Passat Volkswagen. Cinquemila chilometri e 119 giorni di navigazione in un folle volo sull' oceano dalle Canarie alle Antille. «Questa volta però era tutta un' altra storia, una passeggiata. Perché ci hanno fermati?», chiedono gli autonauti Marco Amoretti, 33 anni, e Marcolino de Candia, 31. I due amici sono stati bloccati domenica sera dalla Guardia Costiera di Viareggio a bordo della loro Maserati Biturbo dell' 82, color fucsia e ribattezzata Miriam, mentre navigavano a largo di Forte dei Marmi.

Dopo dieci anni avevano abbassato il tiro, l' idea era circumnavigare l'Italia dondolando sulle onde a 2 nodi e a 300 metri dalle coste. Da Bocca di Magra erano salpati a mezzogiorno vento in poppa e alla chetichella: «Come sempre, sennò ti capitano le rogne con le autorità», scherzano i due trentenni originari di Sarzana. Senza fretta, un porto al giorno, volevano far rotta su Venezia e sbarcare in pompa magna a Piazza San Marco verso la fine di agosto.

«L' idea era quella - raccontano - ma di mezzo ci si sono messi i bagnanti. Hanno avvertito la capitaneria. "Aiuto, aiuto, c' è una macchina precipitata in mare"». Una motovedetta della capitaneria li ha beccati all'altezza di Forte dei Marmi: «Tranquilli, siamo esperti, navigati», hanno detto i due ai militari.

Ma la guardia costiera ha scortato la supercar fucsia galleggiante nel porto viareggino. «Non avevano patente nautica, assicurazione e la benché minima dotazione di sicurezza. In più il natante non era omologato», dice il comandante Fabrizio Ratto Vacuer. Così, la Maserati, attrezzata con un motore Mercury 9 cavalli, è stata sequestrata e multata. Amoretti e de Candia sono rimasti di stucco: «Mica affonda, neanche se la spezzi. L' abbiamo riempita di poliuretano espanso, la fa galleggiare. Che volete che ci succeda - chiede Amoretti - Dieci anni fa abbiamo solcato l' oceano da La Palma alla Martinica: 119 giorni col mare che si gonfiava, nero, bello, sconfinato, terribile», racconta. Ora guardano la loro Miriam attraccata: «A vederla lì fa piangere il cuore».

Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (22/7/2009)

Il re dei bagnini

FORTE DEI MARMI - «Saranno le tamerici e l' odore salmastro che non riesco a levarmi di dosso, neanche d' inverno. Il resto, beh, il resto...». Ce l'ha scolpita sulla pelle, Vittorio Giannotti, la traccia indelebile di un' esistenza balneare. Ultimo di nove fratelli e figlio di uno dei primi concessionari di bagni in Versilia, è il bagnino storico di Forte dei Marmi. «Ho iniziato a sorvegliare il mare a diciotto anni, c' erano i fascisti, ma il babbo ha fondato l' Onda Marina nel 1904».

Neanche lui si spiega che cosa, «a 91 anni suonati, mi spinga a venire qui tutti i giorni, sotto l' ombrellone» alle soglie del mare per scrutare l' orizzonte. «Chi dice che abbiamo gli occhi sempre puntati sui bagnanti racconta frottole». Davanti al tempio della natura, spiega Giannotti, «si pensa, si respira, più spesso si ricorda». E la sua è una memoria ventosa: si allunga ad ondate fino agli albori del lido dorato, poi d' improvviso sguscia, spruzza, si ravvolge in raffiche di dettagli e cammei. Quanto basta per un racconto fedele - e parziale - dell' evoluzione del Forte che da sempre sfodera lusso e bagliori signorili, cela effimera visibilità e declini repentini.

«I bagnini al Forte sono nati per necessità. In spiaggia venivano le signore con la cuffia e l' ombrellino, tutte coperte dalla testa ai piedi, i figli facevano il bagno e capitava che qualcuno ci lasciasse la pelle». Nacque così il consorzio di categorie che diede vita ai bagni. Famiglie di pescatori, marinai, maestri d' ascia, terrazzani e frontisti, cioè coloro che ancor prima del XX secolo avevano costruito casa in mezzo alle dune di sabbia e poi si ritrovarono un diritto di prelazione sulle onde.

«Residenze che scorgevi aldilà di collinette spinose su una landa desolata che quasi non permetteva di viverci. Al Forte le concessioni demaniali per l' arenile venivano assegnate a queste famiglie, o comunque a chi ne volesse una. Se la famiglia era numerosa il tratto di costa era più ampio. Il nostro era il più esteso, 220 metri. Poi ce la siamo divisa fra gli eredi, ma mica puntavamo sul bagno: eravamo pescatori. Si usciva con la sciabica, il mare era pescoso e quello ero il nostro pane». Nell' immaginario collettivo, l' ospitalità balneare è scolpita nei Cinquanta ruggenti della Capannina e nella rivoluzione del costume agli inizi del boom economico. In realtà - spiega il bagnino - ha origini remote. «Le prime cabine erano capanne di paglia e falaschi» costruite per i villeggianti che chiedevano ai pescatori un riparo per cambiarsi dopo il bagno.

«Le ingurgitava la mareggiata e di quelle che resistevano si facevano grandi falò alla fine dell' estate». Al sole dei Giannotti si scaldavano i Ruffo di Calabria, Paola di Liegi e i Borghese di Roma. «Una volta Zita d' Austria volle per forza uscire nonostante la barca fosse stata pitturata di fresco. Quando tornò a riva aveva il costume a strisce verdi e bianche».

Poi, nel Ventennio, il primo sviluppo turistico. Sulle spiagge si scansa l' abbronzatura contadina sotto le tende a vela indossando costumi «buffi e scomodi, maglie e mutandoni di lana che fasciavano tutto il corpo. Vedevi le signore che entravano in acqua, il costume si gonfiava e uscivano tutte imbarazzate» racconta Vittorio. Che dice di aver assistito anche al primo scandalo dell' élite mondana: «Il primo a togliersi la canottiera di lana bianca fu il dottor Vanzetti, quello delle cure elioterapiche. Rimase a torso nudo e disse che "sotto il sole gli uomini eran tutti uguali". La gente gli affibbiò un sacco di nomi. Per quel tempo, era una sconcezza».

Poi la guerra, tre anni passati su una fregata ormeggiata a Cefalù e le bombe che sventrano il pontile marmifero «dove noi bagnini si andava a fare i tuffi». I vagiti della nuova Repubblica e la maturità fortemarmina degli anni ' 60, anche se era diverso «perché si scendeva in spiaggia alle cinque del mattino per piantare cento ombrelloni che si rimettevano nelle cabine alla sera. Tutti i giorni così».

Giannotti resetta i ricordi, si insinua nelle pinete dei primi incontri galanti con le vacanziere, «dove qualche signore c' è rimasto fregato e gli è toccato sposare una cameriera», fino alla frotta di motoscafi e barchette a vela che si potevano ormeggiare a pochi passi dalla riva. Vorrebbe chiudere con le scorribande giovanili alla Capannina dei Franceschi, ma poi torna ancora indietro, a quello «smorfioso» di Gianni Agnelli, che «a 12 anni possedeva già una macchinina elettrica e noi citrulli che gli si correva dietro perché aveva promesso di farcela provare».

Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (19/7/2009)

La smorfia del Burlamacco

VIAREGGIO - Se non possono vedere e camminare, che almeno sentano quello che succede. In questa mattinata di luglio che sembra settembre, la televisione e la radio, per i pochi che la darsena non hanno potuto raggiungerla, sono una dolorosa consolazione. Anche loro, così, partecipano al lutto mentre la città si trasforma in una bolla sospesa; che lentamente si svuota.

Un pellegrinaggio mesto, a piedi e in bicicletta, si dirige allo Stadio dei Pini. E se lo guardi dal di dentro, il viaggio nella Viareggio che celebra le vittime del naufragio di fuoco, è un tragitto solitario su strade deserte.

Negozi, uffici, bar e ristoranti sono chiusi. Le saracinesche abbassate, mute le insegne. Appesi alle vetrine i cartelli invitano i cittadini all’«ultimo addio» e ricordano l’ora della cerimonia. Alle 11,10, davanti al municipio una coppia di funzionari aspetta i giornalisti che ancora non hanno ritirato i pass: «Dieci minuti e poi andiamo anche noi. Ormai qui non c’è più nessuno, la gente è tutta là». Su una panchina di via Battisti due ragazze fiorentine intrecciano una collana: «No, non andiamo al mare. Oggi è giusto così. È il momento di rendere omaggio al dolore, domani si ricomincia».

Più avanti, verso il mercato, una sirena segna una tregua alla pace irreale di via Cavallotti. Nello scroscio di passi di tutti i giorni, nessuno deve essersi accorto che alla gelateria Il Pinguino i frigobar ronzano senza sosta e che a increspare i tricolori listati a lutto in via Zanardelli sono le ventole dei condizionatori alle finestre e non le gazzarre del libeccio. «Noi non ce la sentivamo di assistere ai funerali, ci sono andate le nostre mamme», confessano tre ragazzini sotto le logge vuote di piazza Cavour. Fra poco saranno i soli ad aggirarsi qui intorno, perché Alfredo il giornalaio ha quasi chiuso l’edicola. Rapido, riconta le rese: «Se mi sbrigo faccio in tempo ad arrivare allo stadio anch’io». Sono tutti sotto i pini del Torquato Bresciani, i viareggini. Anche le spiagge offrono alle vittime il loro omaggio. Una desolazione mai vista sulle coste assolate della Versilia. In segno di rispetto, i bagni hanno gli ombrelloni chiusi.

«I villeggianti ci hanno detto che non verranno fino al pomeriggio per rispetto dei morti», racconta Simona Giannessi al Nettuno. «Qui non troverai un viareggino», aggiunge Simone Cortopassi, bagnino al Balena. Ha appena finito di spiegare a sei tedeschi che potrà affittare una tenda solo a partire dalle tre. Gli ha indicato le bandiere a mezz’asta. Perfino nel tunnel proibito di via Ponchielli, con la scorta dei pompieri, oggi si può camminare. Ci sono macchie, cose fuse alle cose, e sulle macerie corone di fiori.

In passeggiata, nei coni d’ombra delle tende non scintillano cocktail o gelati. Sotto i balconi liberty i vacanzieri (pochi) si muovono smarriti. Osservano il burlamacco che sempre sorride. Anche lui listato di nero. E c’è chi giura che, nella notte, fra gli hangar della Cittadella il tempo effimero della cartapesta si sia fermato e sulla maschera simbolo del carnevale si sia disegnata una smorfia.

Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (8/7/2009)

Viareggio adotta Ibi

VIAREGGIO - «La storia di Ibi, insieme a quella del piccolo Leonardo, è forse la storia più drammatica che questa strage ci lascia in eredità. Non la abbandoneremo, faremo di tutto affinché possa avere la vita che voleva prima di perdere tutto». Giuseppina Tazzioli è dirigente dei servizi sociali del Comune di Viareggio. Sarà lei, insieme all' assessore al sociale Vittorio Fantoni, a prendersi cura di Ibitzen Ayad, la 21enne marocchina unica superstite di una famiglia sterminata dall' uragano di fuoco in via Ponchielli.

Ibi ha visto morire i suoi familiari uno dopo l' altro in questi giorni: il fratello di 17 anni Hamza, il padre Mohamed, la madre Aziza e infine la sorellina di 4 anni, Iman, morta al Bambin Gesù di Roma mercoledì. Ora Ibi vuole rimanere in Italia, costruirsi un futuro, diplomarsi, trovare un lavoro come pasticcera: «Vivrà nella comunità alloggio del Comune, costantemente seguita dagli psicologi. E lei, come Leonardo, non dovranno venire dimenticati da chi ha provocato questa strage: lotteremo perché abbiano un risarcimento adeguato, questo è certo».
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (4/7/2009)

La memoria delle cose

VIAREGGIO - Una chitarra e tre fotografie. Qualche maglietta e un computer. Un microonde, una lampada da tavolo e pezzi di salotto. Self service di via Ponchielli, Viareggio, a tre giorni dal disastro. Si salva quel che si può dal naufragio, piccole cose buttate nei carrelli presi in prestito alla Pam. Lo spazzolino da denti, un portafoglio, il quadro del soggiorno, la tovaglia col pizzo.

Cose utili per riprendere la vita nel quotidiano e altre indispensabili per rattoppare i ricordi, tirarsi via dall' orrore e dall' odore di fumo e di bruciato che satura ogni cosa e non si stacca dai muri accartocciati, dalle plastiche e dai metalli fusi. E' una processione alle transenne. «Vado a vedere se si trova il mio gatto» dice una signora accostando la bici a un muro. Qui è sempre zona rossa, gran parte di via Ponchielli dovrà essere abbattuta. Gli abitanti sopravvissuti al disastro si avvicinano, scortati dai vigili del fuoco, alle loro case sventrate: «Fatemi riprendere quello che resta».

La mattina però la zona è ancora off limits per ordine della procura. Qualcuno, come Antonella, non ci sta e forza il blocco, piange disperata: «Avevamo finito di pagare il mutuo martedì e ora ci demoliranno la casa. Io non riesco nemmeno più a dormire la notte, è tutto così terribile che non sembra neanche vero». E' sotto shock. Dice: «Chi ha causato tutto questo deve pagare». Nel pomeriggio i varchi si aprono e la gente torna nell' epicentro della strage coi carrelli a fare il pieno di quel che possono recuperare in fretta. Le cugine di Leonardo Piagentini, il bambino sopravvissuto sotto il materasso nella casa demolita dall' esplosione, sono qui a rastrellare dalle macerie un elefantino di stoffa, un cane di peluche, qualche disegno a pennarello, cose che appartenevano a Luca e a Lorenzo, i fratellini morti: «Li vogliamo portare in ospedale a Leonardo». Si fatica a superare l' emergenza da questo lato della ferrovia.

In via Aurelia riaprono i negozi, qualcuno con le crepe nel retrobottega no, deve aspettare il sopralluogo dei vigili del fuocoe degli addetti del Comune. E' tutto sotto condizione. Il bar Moreno resta con la serranda abbassata, il proprietario ha perso suo fratello e nella casa che abitava fino a pochi mesi fa e che aveva affittato è morta una famiglia. La concessionaria Yamaha ha riaperto, l' officina no. Su ogni porta l' avviso del Comune che invita a non aprire il gas, a non accendere la luce, a entrare e spalancare le finestre. Prova a ripartire anche l' altra Viareggio, quella sulla riva opposta della ferroviaria, verso la stazione.

Via Puccini, Matteotti, piazza Dante sono una tessera di apparente normalità. «Io e mio marito siamo entrati in casa dicendo che dovevamo prendere delle cose due giorni fa e poi siamo rimasti. Nessuno è venuto a prenderci e noi abbiamo dormito nella zona rossa». Riprendono a scorrere le auto sul cavalcavia e sotto si vedono i vagoni del treno merci, il locomotore, le cisterne accasciate sulle rotaie e le altre sgranate in fila. La gente rallenta, guarda, qualcuno scatta fotografie, molti accellerano. Certi negozi hanno le bandiere listate di nero, in Comune i manifesti del lutto: si deve riprendere da qualche parte, anche se il futuro come ha scritto qualcuno sui muri di un' altra città, non sarà più quello di una volta.

Pubblicato da Laura Montanari e Mario Neri su Repubblica Firenze (3/7/2009)

lunedì 27 luglio 2009

La tendopoli e gli shock

VIAREGGIO - In silenzio, ancora scossa e con i ricordi inchiodati all'inferno al gpl, la seconda notte nella tendopoli è una notte più affollata della prima. Quasi uno strano imbarazzo ha immobilizzato chi è rimasto senza casa. Accolti da amici e parenti martedì, gli sfollati non vogliono essere di peso alla Viareggio che gli si è stretta intorno e ha pianto i morti con i tricolori listati a lutto. Il pudore e la stanchezza li hanno riportati qui sotto le mura del municipio, sulle brandine che i volontari della Misericordia versiliese hanno riordinato con cura.

«Non sappiamo se potremo ritornare in casa stasera. Stanotte l'abbiamo passata da amici sulle montagne, ma non ce la sentiamo di disturbare ancora: la nostra macchina è bruciata, dovrebbero venirci a prendere, imprestarci i loro vestiti, il loro bagno, la loro intimità», racconta Rosario Crivello, dopo aver chiesto un posto in tenda per sé, la moglie Svetlana e il loro yorkshire.

Il primo buio di pace dopo l' apocalisse era trascorso in un' atmosfera surreale. Solo 10 hanno dormito al centro accoglienza davanti al Comune. Due coppie, una famiglia con un cane, un uomo appena dimesso dall' ospedale e una anziana di 80 anni, sola. Una quarantina di sfollati hanno trovato rifugio nelle scuole elementari Lambruschini, dove ieri è si poteva anche mangiare un pasto caldo, 50 hanno alloggiato negli alberghi del litorale. Il resto, degli oltre mille sfollati nella città sfregiata dalla freccia di fuoco carica di gas propano, si è arrangiato con gli amici, i conoscenti che abitano fuori dalla zona rossa, i 50 ettari di area urbana che rimarranno off limits fino al completamento della bonifica delle cisterne carbonizzate sui binari.

Chiara Buoncristiani e sua mamma Marina sono riuscite a sgattaiolare su per le scale nel loro appartamento in via San Francesco, vicino alla Croce Verde sfregiata dall' onda d' urto. «Siamo rientrate di soppiatto per una doccia, qualche telefonata e poi volevamo rivederla, tornare a toccare le nostre cose», racconta Chiara che ora ha accompagnato la madre alla tendopoli in preda a un attacco di tachicardia. Dopo il boato erano scese in strada: «Una lingua di fuoco si è infilata in via Garibaldi è ha investito una macchina», prosegue con una mano fasciata sotto una tenda dell' unità di crisi: «Ha sbattuto contro un muro, ci siamo avvicinate e l' uomo era carbone e fiamme. Siamo scappate verso il mare, un cane mi ha morso perché gli animali erano come impazziti e la gente vagava smarrita».

Fantasmi, storie di un disorientamento emotivo che si ripetono, e che prolungheranno strascichi psicologici per molto tempo. «Perdere la casa o aver assistito a scene drammatiche costringono a un passaggio delicato e traumatico. Con la casa si perde la propria identità, il nostro compitoè stato quello di non far piombare la gente nella solitudine e nella disperazione dei flashback della strage, spesso inevitabili», spiega Manuele Palagi, 28 anni, psicologo che coordina gli interventi di assistenza a capo di un team di 10 esperti.

Sono diversi gli shock, i tentacoli inconsci della paura: «C' è chi reagisce col pianto inconsolabile, chi con aggressività o addirittura con impassibilità», conclude Palagi. Poi c' è chi si sente vulnerabile, indifeso. Alla scuola Lambruschini in via Cavallotti, Derbali Ramzy, un tunisino di 27 anni, c' ha dormito e vorrebbe dormirci ancora per un po' . Ha perso il lavoro da carpentiere e viveva in una casa abbandonata, senza un soldo per pagare la pensione che gli assistenti sociali offrono alla moglie e al suo bambino di 3 anni. Una mitragliata di ghiaia l' altra notte l' ha sorpreso sulla banchina della stazione ferendolo al braccio e al collo. È ancora spaventato, chiede notizie alle volontarie della Croce rossa: «Mica mi caccerete una volta finito tutto?».

Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (2/7/2009)

Emergenza sfollati

VIAREGGIO - Molti alloggeranno negli alberghi del litorale e al palazzetto dello sport, altri hanno trovato riparo da amici e parenti. In più c' è già la disponibilità della Croce rossa, delle associazioni di volontariato locali e dell' Asp, una società multi servizi del Comune che si occupa della refezione scolastica, per offrire beni di prima necessità e pasti caldi agli sfollati che, «per almeno i prossimi due giorni», ha detto il capo della Protezione civile Guido Bertolaso, dovranno rimanere fuori dalle proprie case.

Viareggio è costretta a un esodo prima di oggi mai conosciuto se non durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale, che si concentrarono proprio a ridosso della stazione e sulle case distrutte ieri dall' ondata di fuoco provocata dall' esplosione. Direttamente o indirettamente colpiti dall'apocalisse divampata poco fuori dalla stazione lunedì notte, sono oltre 1.000 le persone evacuate dalla Protezione civile e dai vigili del fuoco in un quadrilatero della città di quasi 50 ettari di estensione. Un' area urbana che a nord-est è delimitata dall' Aurelia e a sud-ovest arriva fino a via Puccini, una delle arterie centrali. Un perimetro di sicurezza che ieri in serata è stato abbassato verso il mare fino a via Pucci. Una fetta di città per cui vige uno stato d' allerta provvisorio. Gli abitanti della case situate fra le due strade sono rientrate in casa, ma in caso di allarme dei vigili del fuoco dovranno evacuare.

Almeno 60 le persone che dovranno aspettare settimane e forse mesi per fare ritorno nelle loro case. In via Ponchielli, quella vicina ai binari sul lato monte della ferrovia, due palazzine si sono sbriciolate nella deflagrazionee altre8 hanno riportato gravi danni strutturali. Sono invece circa 800 le persone che hanno trovato alloggio per i prossimi giorni da amici e parenti residenti in città o nei Comuni della Versilia. Da 200 a 300 coloro che invece verranno ospitati nelle strutture alberghiere di Viareggio. «Nessuno degli albergatori si è tirato indietro, tutti hanno fatto la loro parte, e hanno dato la loro disponibilità fino a quando l' emergenza non sarà passata», ha detto ieri il sindaco Luca Lunardini.

Non solo i due e i tre stelle, ma anche i grandi hotel di lusso riserveranno alcune delle loro camere ai viareggini investiti dalla tragedia. «Stiamo ancora aspettando che l' associazione di categoria ci comunichi con esattezza quanti posti letto dovremo tenere per gli sfollati, ma siamo a completa disposizione. Per ora teniamo ferme 5 camere ma non escludiamo che siano anche di più», diceva ieri alle 17 la direttrice del Principe di Piemonte Daiana Ferretti, che ha dato l' ok all' amministrazione di Viareggio anche per l' utilizzo del centro congressi dello storico hotel liberty. Altri nodi dell' accoglienza organizzata dal Comune sono le scuole medie Lambruschini e la tendopoli montata dalla protezione civile e dai volontari delle misericordie localie dell' Ampas. Sono cento i posti disponibili nelle tende e vicino è stata istallata una struttura per la prima assistenza sanitaria. Poi c' è il Palazzetto dello sport e la nuova sede dell' Auser, un' associazione che si occupa di assistenza agli anziani.

Ieri è partita anche la prima campagna di solidarietà patrocinata da Comune, Provincia e altre associazioni culturali della Versilia. Chi vuole versare un contributo a favore delle vittime può farlo al c/c iban IT65Y08726240000000010478 1 presso la Banca della Versilia e della Lunigiana.

Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (1/7/2009)

domenica 26 luglio 2009

La capitale delle vacanze sotto shock

VIAREGGIO - Infilzata dalla voragine di fuoco, tramortita dall'aurora arancione nella notte più lunga della sua storia e poi risvegliata nel biancore dei fumi al gpl, la capitale del turismo toscano è una coscienza spaccata a metà. Un'anima sbalzata nello shock di una giornata irreale, anestetizzata dai tg e da grappoli di nuvole che il vento non è riuscito a diradare.

Fuori dall'epicentro della tragedia e della crisi, che nel pomeriggio, con l' arrivo del premier, si sposta sotto le mura del municipio piuttosto che rimanere fra le macerie e i binari carbonizzati, insieme al lutto e alla compassione per chi ha perso tutto e la vita, si unisce uno stordimento collettivo. Quasi un pauroso e protettivo distacco.

Come quello di Piero, che dietro al bancone di una pizzeria da asporto in piazza Cavour non si stupisce delle dimensioni del dramma né dell' attenzione che i media concentrano sulla sua Viareggio: «Ho visto il telegiornale stamani, alla stazione non ci sono passato. Oggi Viareggio è una città in tilt, non si riesce a circolare...». Eppure di fronte ci sono Alessandra e Cristina, determinate a non passare un secondo di più a maneggiare soldi (pochi) che nel deserto della piazza non ha più senso incassare «di fronte a una catastrofe del genere». In silenzio ripongono nei box sotto i platani le bancarelle con le scarpe e la biancheria: «Non saremmo neanche dovute venire. Dovevamo andare fra la gente senza casa, a dare una mano o anche solo conforto. Non ce la sentiamo più di restare qui», dicono le due commercianti.

Come loro, sono molti i viareggini scossi da un terrore provocato da un incidente «senza riscontri nella storia del Paese», ha detto ieri il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Guido Bertolaso. Un' ondata emotiva che deve essere subito superata: «Non sarà facile affrontare l' estate con i fotogrammi di queste ore impressi nella memoria, ma Viareggio è la città della solidarietà, saprà reagire e tornare alla normalità anche da sola», dice Graziano Giannessi, gestore del Bagno Nettuno e vicepresidente nazionale dei balneari, che aggiunge: «Fummo i primi ad arrivare con i nostri pattini durante l' alluvione del Polesine. Navigando sul fango, distribuimmo latte e acqua. La rete di solidarietà viareggina reagì immediatamente. L' abbiamo fatto per gli altri, figuratevi cosa saremo capaci di fare per noi».

Ieri dai pennoni degli stabilimenti le bandiere sventolavano a mezz' asta: «Era il minimo che potessimo fare», dice Francesca al Bagno Dori, ieri disertato dai vacanzieri. Sul molo Alfonso espone mesto l' unica cassetta di pesce della giornata. A mezzogiorno le reti del suo peschereccio erano ancora sgonfie come calzini: «Ho riportato poco, qualche triglia, cicale e spannocchi, ma è ancora tutta qui», dice mostrando il bottino del giorno aggiungendo che «anche il mare ha sentito il botto, e ha avuto paura, sente il dolore». Ma è un cordoglio composto il suo, un' emotività trattenuta. La rabbia per quel treno carico di veleni e fuoco che forse hanno compromesso l' allegria dell' estate e la serenità dei vacanzieri, molti viareggini la sfogano dopo. Urlando al passaggio del premier.

Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (1/7/2009)

McBride: "Vi spiego dove è nato Miracolo a Sant'Anna"

Solo, asserragliato in una rocca medievale, l'unico nella sua postazione. Un uomo cresciuto nei campi di cotone finito a combattere su una collina incastrata fra le montagne italiane per l'esercito di un paese che ancora lo chiama «negro». Cerca riscatto, forse gloria, come Achille, più di Achille. Ha i gradi di tenente: ordina ai suoi caporali di scendere a valle, prima che i colpi di mortaio e i mitraglieri del battaglione Kesselring raggiungano anche loro. Insieme alle case sventrate, i campi inondati di sangue, i commilitoni sfondati, la paura della povera gente rinchiusa nei fondi delle cantine. Accerchiato da nemici che lo disprezzano, John Fox ha fatto la sua scelta. Arrestare il «Temporale d' inverno», l' offensiva che nazisti e repubblichini hanno pianificato per rinchiudere la Valle del Serchio in una morsa funerea è impossibile. Ma ritardarne la conquista si può, Fox capisce come. Nell' ultimo messaggio radio da inviare al battaglione della sua artiglieria, le coordinate non saranno freddi numeri: il fuoco dei cannoni amici deve convergere sulla sua posizione: Sommocolonia. Ucciderlo per evitare che si continui ad uccidere.

E' il 26 dicembre del 1944, il tenente Fox è uno dei colored soldiers arruolati nella 92a Divisione Buffalo, l'unica interamente composta da soldati afro-americani che gli Usa abbiano mandato in Europa per sfondare la Linea Gotica. Sono passate da poco le 11, e si combatte la Battaglia di Sommocolonia, il paesino vicino a Barga in cui morirono più di ottanta soldati neri. Nasce in questo borgo, arroccato a 700 metri d' altitudine a sud-est di Castelnuovo Garfagnana, Miracolo a Sant' Anna, il romanzo di James McBride che ha ispirato il film che Spike Lee presenterà il 7 settembre al festival del cinema di Toronto.

A confermarlo è l' autore stesso: «E' stato Enrico Tognarelli, il figlio di un partigiano che ha combattuto a fianco di mio zio Henry su quella montagna, il primo a farmi conoscere Sant'Anna di Stazzema. Ci incontrammo a Sommocolonia nel 2000, io ero venuto in Italia con alcuni veterani della Buaffalo per le celebrazioni della Battaglia del giorno di Santo Stefano», spiega McBride dal suo appartamento nel New Jersey. Quello di otto anni fa è l'inverno in cui a Sommocolonia è tornata anche la moglie di John Fox, Arlene, per le celebrazioni in onore dei soldati neri che portavano sull'omero sinistro lo stemma di un bufalo nero, omaggio agli antenati che, costretti dai bianchi a partecipare alla guerra di Secessione, si sfamarono dando la caccia alle mandrie di bisonti nelle terre dei Cheyenne.

L' amministrazione guidata dal sindaco Umberto Sereni, docente di storia contemporanea all'università di Udine, aveva invitato i reduci afro-americani per la fondazione della Rocca della Pace, un santuario della memoria installato nei ruderi della torre distrutta dai bombardamenti. La tomba di Fox. Con i sopravvissuti c'era anche McBride, che cercava informazioni e testimonianze per costruire la sua storia: «Alcuni rami della mia famiglia - racconta Tognarelli - sono emigrati in Inghilterra e in America. La gente di Barga sapeva che io parlavo inglese, così mi presentarono McBride. Gli parlai di mio padre Franco, partigiano nella brigata Pippo, comandata da Manrico Ducceschi, e di mio zio Gianni. Ora siamo diventati grandi amici, ci scriviamo e ogni tanto vado a trovarlo in America.

L'anno scorso è tornato lui, con Spike Lee, e me l' ha fatto conoscere. Ed è vero, sono stato io a parlargli per primo dell'eccidio di Sant' Anna». Nel romanzo, McBride l'ha anche citato con il suo soprannome, Scanapo, insieme a suo zio e a suo padre. La battaglia di Sommocolonia invece non c' è. Alla ricerca storiografica ci ha pensato Vittorio Biondi, un maggiore dei paracadutisti che risiede a Barga. McBride ha ascoltato il dolore di chi ancora ricorda, ha visto con gli occhi dei testimoni e dei figli. Scene dei combattimenti, l'orgoglio della Resistenza, il coraggio inconsapevole dei soldati. E ha messo tutto nella fiction: «Per tanti è molto difficile parlare della guerra, evoca fantasmi che il tempo non cancella. Sarò sempre riconoscente a Tognarelli e alle persone di Barga che hanno deciso di raccontarmi la loro esperienza o la storia della loro famiglia», continua il romanziere.

Che spiega di aver fatto confluire in alcuni dei suoi personaggi caratteri e psicologia dei protagonisti della Storia e delle storie: «Sono molte le persone - partigiani, soldati e civili - ad aver ispirato il mio lavoro. Non solo, ma i campi, i castagni, gli oliveti, i boschi, i crinali, le montagne che descrivo nel libro sono quelle che ho visto a Sommocolonia, un giardino pieno di frutti per la mia immaginazione di scrittore. Ve ne accorgerete anche vedendo il film».


Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (29/8/2008)


La favela che luccica

SOPRA le strade di fango e gli assembramenti di casupole puzzolenti della favela, certi tetti a nord-ovest di Fortaleza luccicano, più dei baby-revolver assoldati dai trafficanti. E il sole di Caucaia, abituato a illuminare la miseria estromessa dalle cartoline, da qualche giorno, grazie a un' idea fiorentina, produce una merce preziosa: risparmio energetico.

Quello ricavato da 14 pannelli fotovoltaici realizzati dagli studenti dell' Itis Meucci di Firenze, che a fine marzo sono volati in Brasile per consegnare il progetto ai ragazzi di una scuola diretta da don Angelo Stefanini, missionario dell' Opera Madonnina del Grappa. «Da tre anni la nostra scuola si impegna in iniziative di solidarietà con un piano di cooperazione che ci permette di mettere la nostra formazione tecnica al servizio di realtà difficili attraverso stage alternativi a quelli che si fanno in azienda. È nato così il nostro sodalizio con la scuola di Fortaleza e credo che proseguirà anche nei prossimi anni», dice Francesco Lupi, uno dei cinque studenti sbalzati dalla culla del Rinacscimento al Sudamerica grazie al progetto dell' istituto tecnico di Soffiano.

«Volevamo che il nostro contributo si traducesse in qualcosa di concreto. Così abbiamo pensato ai pannelli solari. Certo - aggiunge Francesco - sono poco più di 3 kilowatt, bastano a dare autonomia solo a un' ala del centro, ma abbiamo lasciato ai docenti brasiliani il progetto per istallarne altri». E sono stati proprio i ragazzi della scuola brasiliana a dover completare il lavoro, perché per il gruppo del Meucci l'approdo al di là dell'Atlantico è stato segnato da un contrattempo: «Noi siamo atterrati a Fortaleza, ma il trasferimento del materiale è dovuto passare via San Paolo. Lì è rimasto bloccato alla dogana fino al 27, poco prima del nostro ritorno: una beffa», scuote la testa Francesco.

«Insomma, la burocrazia si inceppa come in Italia», dice con un' alzata di spalle. Costruito negli anni '90 sotto la direzione di don Alfredo Nesi, il centro Madonnina del Grappa di Caucaia è diventato un polo socio-educativo e sanitario dove confluiscono più di 500 figli della baraccopoli. Sopravvive grazie alle donazioni e alle campagne di solidarietà promosse da enti pubblici fiorentini. I gradi di insegnamento vanno dalle elementari alle medie, con alcune classi di superiori a indirizzo professionale.

«In più comprende un asilo nido, una materna, una mensa e alcuni ambulatori dove operano come volontari anche medici di Scandicci», spiega Mario Enrico, prof di elettrotecnica che, insieme a Cosimo Regina e Angela Fornaciari, ha fatto da accompagnatore ai maturandi di via del Filarete. Il centro di Caucaia riceve più di mille richieste all'anno. I ragazzi vengono iscritti gratuitamente in base alla loro condizione sociale. «Don Angelo viaggia su un pulmino bianco fra le case delle favelas. Verifica di persona quali sono i ragazzi delle famiglie più povere, quelle davvero bisognose e poi assegna le iscrizioni. A uno dei suoi tour abbiamo partecipato anche noi», racconta Matteo Mistretta, che delle favelas aveva sentito parlare «ma non immaginavo fossero davvero così. Se non fossimo stati sotto la protezione del parroco non credo saremmo mai usciti di lì».

Seppure viste su «Youtube e nelle inchieste delle Iene», ai diciottenni del Meucci le favelas, quelle vere, hanno fatto effetto: capanne di terra, mattoni e immondizia, rigagnoli di acqua nera che scorre via dalle case, fogne a cielo aperto, «gente che riesce a dormire anche se fuori si sparano. La vita, in Brasile, non ha il valore che le attribuiamo noi. Eppure tutti sorridono». Soprattutto da quando c' è la scuola intitolata a don Milani, «l' unica vera opportunità per costruirsi un futuro fuori di lì, anche se è osteggiata dalla criminalità e dalle autorità locali che non la sovvenzionano», dice il prof Enrico, che aggiunge: «Gli amministratori sono infastiditi: nei gigli dipinti sulle facciate vedono riflesso tutto quello che loro non riescono a fare».

Per questo, accanto all' effigie fiorentina sono comparse le bandiere verde-oro. Un gesto distensivo, che dovrebbe tenere lontani i malintenzionati. Come il filo spinato e la rete elettrificata che corre intorno agli edifici e informicola l'aria. Così, i pannelli del Meucci sono al sicuro. Don Angelo, di sera, fa sorvegliare la struttura da due uomini in divisa e da quattro rottweiler, quando i tetti, ormai, hanno smesso di specchiare la danza dei falchi.


"La sera i boati, dal cielo o forse dalle pistole"
NELL’allegria delle favelas, scrutata da un pulmino hippie, il primo stupore si attorciglia alle narici, «perché al contrario di quanto si possa immaginare, la puzza è una miscela di detersivo e spazzatura». Un odore che ristagna per giorni, «ti si appiccica addosso come cellophane», in una coperta granulosa di «umido e fango essiccato», ha riportato nel suo diario Francesco l’informatico, aggiungendo che il Brasile ha sconfessato i suoi pronostici: «Non so perché, forse dai racconti che ho letto da qualche parte, mi ero fatto l’idea che puzzasse di fogna».

«Di quelle, nelle favelas, hanno un concetto strano», racconta Tommaso, 18 anni, elettronico. «È una rete di tubi che attraversa le case poco sotto il terreno e sgorga per strada». E spesso ci sono pozzanghere, e non sono dovute solo alle piogge. Così è quasi ovunque. «Noi l’abbiamo visto da Esmeralda. Dice che da lei, siccome il bagno è più in basso della strada, se piove, lo scarico non funzione e rifluisce tutto in casa».


«Quando tornavamo al centro con don Angelo ci chiedevamo come si potesse vivere in quello stato. Vani di tre metri scrostati dove dormono in due, e cartone e lamiera a fare da divisori; poi pentolame e poco altro. Tutti hanno il televisore, ma nessuno ha niente». Eppure a Caucaia sembrano felici, si sorridono e si abbracciano, sugli autobus scassati e mentre entrano a scuola. «Studiare non costa fatica, anche se di sera ascolti boati e non sai se vengano dal cielo o dalle pistole», ha spiegato don Angelo ad Alejandro e Lorenzo. «Perché nelle favelas si ammazzano. Oggi sei sulla strada, domani in una fossa; non fa differenza, la vita scorre così».



Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (14/4/2009)

Il mondo di Cancogni

MARINA DI PIETRASANTA - «Ho ridotto il mio spazio vitale a questa stanza, ma non dimenticherò mai l' odore che sentivo in spiaggia da bambino. Il mare intimoriva, emanava una fragranza che dava la sensazione di trovarsi davanti a un corpo nudo, una natura viva pronta ad accoglierti. Alle volte addirittura riusciva a imbarazzarti. Non l' ho più risentito». Il filo conduttore di questa storia è la memoria, la forza di una traccia vitale che un luogo ha impresso sulla vita e le opere di uomo che ha amato con struggimento la località in cui è tornato per anni in estate fin dall' infanzia. La terra di cui sentiremo è la Versilia, la voce che ce la racconta è quella di Manlio Cancogni.

Da giornalista e scrittore ha attraversato quasi tutto il Novecento, vinto un Viareggio, uno Strega, firmato inchieste per l' Europeo, Il Corriere della sera e l'Espresso che i manuali segnalano come oracoli per le nuove generazioni di cronisti. Ha compiuto 92 anni il 6 luglio scorso nella sua villetta affacciata sul mare di Fiumetto. Lì, a Marina di Pietrasanta, sopra un vialetto di platani e acacie, vive da tempo con la moglie Rori. Da un paio d'anni riceve le visite degli amici più cari senza mai mettere il naso fuori dalla porta, «perché la Versilia che vedo è quella che immagino, che ricostruisco pezzo per pezzo mettendo insieme i tasselli della memoria». Ed è una memoria sorgiva, fluviale, maneggiata con lucidità e ironia, plasmata in strumento poetico.
Tutto parte da qui, in principio era la Versilia dunque..
«Beh sì. Credo di amare e di aver provato nostalgia per questa terra come mai nessuno dei suoi abitanti. Il viaggio di ritorno da Roma verso il mare era l' episodio centrale dell' anno. E' su questa suggestione che ho cominciato a scrivere. Credo che sia dovuto al fatto che ci sono stato un anno a balia. La Versilia aveva preso il posto di mia madre, la sua natura per me era una natura materna».
Il suo libro, "Il latte del poeta", parla di questo?
«Ho fatto della Versilia un' astrazione letteraria. Qui riuscivo ad essere a mio agio, in pace con me stesso, tranquillo. Per lavoro ho viaggiato in moltissimi posti, che mi sceglievo e teoricamente, nella mia fantasia, mi piacevano pure. Ma dopo pochi giorni sentivo subito il bisogno di tornare. Poi tornavo e volevo subito intraprendere un nuovo viaggio. Ora, invece, non ho più il desiderio dell' Altrove. Ho finalmente realizzato il sogno che avevo da bambino».
Mare o montagna. Cosa è rimasto immutato?
«Il litorale è cambiato di più. Non c' era neanche il viale a mare. La sabbia arrivava a toccare le case. C' erano ancora le dune, piene di vegetazione e spiagge semideserte. Poi pochissimi bagni, di legno: capanne di frasche e falaschi che si costruivano all' inizio dell' estate e si bruciavano in grandi falò a fine settembre. Dietro, una macchia fittissima, non del tutto mediterranea. In parte era una foresta nordica. Oltre ai pini, torreggiavano olmi, frassini, betulle e platani. Le montagne invece sono ancora bellissime, anche se l' alluvione del '96 ha spellato le pendici dei massicci più belli».
E che per lei sono stati fonte di ispirazione
«Sempre. La storia del romanzo Il Ritorno, ad esempio, è quella di un battaglione italiano in Bosnia colto di sorpresa dall' armistizio dell' 8 settembre. Incapace di qualsiasi patteggiamento con i tedeschi e i partigiani, intraprende una marcia della salvezza verso la Macedonia. Ma è tutto immaginario, il pretesto era ripercorrere, come i greci nel leggendario racconto di Senofonte, le tappe della mia vita e quelle dei sentieri che da bambino percorrevo sulle Apuane con mio padre. è un viaggio della memoria e dello spirito che culmina nella visione salvifica del mare. In quelle lunghe passeggiate si attraversava un valico che alzava il sipario sullo spettacolo della costa, e per me era sempre un' emozione fortissima: ti trovavi di fronte alla Verità. Come vede io sono un versiliese anomalo».
In che senso?
«Ho sempre amato di più la montagna. In fondo per me la Versilia non ha mai significato vacanza, ma scoperta. è diventata luogo di vacanza prima della guerra, all' epoca delle rotonde sul mare, del tram che solcava la sabbia da Forte dei Marmi a Viareggio. Oggi non è più come prima. C'erano i villeggianti, che si fermavano per due o tre mesi, non i turisti. Il turista è un animale diverso. Si ferma poco, non vede, non conosce e se ne riparte, è un animale onnivoro che deve riempire tutto in poco tempo, senza la sosta che invece è necessaria alla riflessione».
Oggi al Forte ci sono i russi.
«Non ne so un granché, immagino siano ex Kgb, figurarsi. A dire il vero, su di me il Forte non ha mai esercitato grande fascino. Il Quarto Platano l'ho frequentato pochissimo, anche se li conoscevo tutti: Carrà, Soffici, Papini, ma alla presenza dei letterati avrei preferito quella degli sportivi. Rimpiango Enrico Pea, un grande scrittore ingiustamente dimenticato. E l'umorismo di Montale. Credo che neanche lui si rendesse conto della sagacia comica di cui era dotato».
Di solito sotto l' ombrellone ci si rilassa con un bel libro, cosa sta leggendo?
«Per la quarta volta, Addio alle armi di Hemingway. Insieme a Fiesta e ai racconti, trovo sia uno dei suoi libri migliori. Non mi appassiono molto ai contemporanei, anche se come giurato del premio Strega ho letto quelli in concorso. Ho votato Rea, anche se non mi ha convinto. Giordano è molto giovane e promettente, ma non mi ha interessato».
Se si discute di cultura, in Versilia si parla di Pietrasanta.
«Mah, prima a Pietrasanta c'era una solida tradizione di artigianato. Negli studi si facevano lavori di grande livello. Si riusciva a riprodurre alla perfezione non solo un Canova o un Bernini, ma addirittura Prassitele e Fidia. Erano artigiani abilissimi, fra i quali c'erano dei veri artisti, come la dinastia dei Tommasi. Ora tutto questo è scomparso. In pochi si cimentano più con la figura umana. Certo, ci sono Botero e Mitoraj, nomi di fama internazionale. Ma è un altro paio di maniche, e si chiama mercato, non cultura».
A Firenze ieri si è celebrato l' anniversario della liberazione della città, e oggi ci sarà la commemorazione della strage di Sant' Anna. Lei dov' era nel '44?
«A Firenze, facevo parte del Fronte della gioventù. è stata la liberazione più sanguinosa di tutto il Paese. Un mese di guerriglia fra partigiani e tedeschi: una carneficina. La mattina dell'11 agosto scesi di corsa in piazza D'Azeglio. I partigiani urlavano. Si era sparsa la voce dell'arrivo delle forze alleate. Mi ricordo di aver afferrato la mano di una vecchietta che si sporgeva da una finestra di via della Colonna. Mi chiese se fossero davvero arrivati. Rispondendole, mi misi a piangere. Di Sant' Anna, all' inizio avemmo notizie confuse. Alcuni dicevano che la strage fosse avvenuta a Stazzema, altri parlavano di Farnocchia. Io ci andai l'anno dopo, come inviato della Nazione del Popolo. C'erano rimaste cinque persone. Ricordo una donna che vagava ancora in preda alla paura».
Per quel giornale, nel '45, scrisse un articolo in cui perorava la causa di un' istruzione fondata sulla memoria e il nozionismo. L' eco della sua Modesta proposta fu tale che Firenze si riempì di scritte di protesta. Lo riscriverebbe?
«Con quell' articolo prendevo in giro prima di tutto me stesso. Avevo insegnato filosofia in un liceo e con i ragazzi adottavo un metodo troppo confidenziale. Chiacchieravamo, e poi alla fine li passavo tutti. Comunque sono ancora dello stesso parere. La base dell' apprendimento è la memoria. I francesi dicevano: "apprendre par le couer", si apprende attraverso il cuore. Ed è vero perché la memoria è affettiva, e non una scatola dove si ripongono cose alla rinfusa».


Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (12/8/2008)

Quando il Forte era una spiaggia senza nome

FORTE DEI MARMI - Una soffitta buia, polverosa. Libri, fotografie e vecchi documenti ingialliti dal tempo. Un abbaino da cui riverbera un tenue fascio di luce bianca. Un uomo che monta e smonta una pellicola, come se dipanasse il tempo e la memoria, poi la sua voce: «Forte dei Marmi era una landa deserta, perché era inospitale e perché non permetteva di viverci». Chi si affanna con la storia, l' uomo di questa istantanea è Emilio Tarabella. In quella che molti ricordano come la località vacanziera più signorile d' Italia, associandola agli anni ruggenti, dai nobili soggiorni degli Agnelli e dei Piccolomini ai cumenda lombardi fino a Sapore di sale, lui è un reduce, uno dei pochi depositari della genesi del paese da sempre, nell' immaginario collettivo, cosparso di lusso, di sole e salmastro.

Ed è col suo racconto che si apre Il Forte mi parlò, il documentario di Matteo Raffaelli, regista che dal Forte se ne è andato nel 1999 per trasferirsi a Roma, vicino al grande cinema. Dopo anni di studi, dopo aver diretto film-documentari come A quattro mani con Andrea Camilleri e Carlo Lucarelli, o aver girato la versione televisiva del Memorie di Adriano di Albertazzi prodotta da Minimumfax per la Rai, Raffaelli è voluto tornare su quelle piagge deserte, per raccontare la storia del paese in cui è nato.

Grazie ai giovani editori versiliesi di Franche Tirature, Sabrina Mattei e Iacopo Cannas, ne è nato un film che verrà presentato il 19 agosto in piazza Fleming (21,30), nella pineta a un passo dal mare e dal municipio. Una narrazione corale, che fissa le origini del mito turistico di uno dei fazzoletti di sabbia più esclusivi d'Italia alla fine dell' 800. «Il Forte è una anomalia del nostro paese. In Italia ogni pietra è consacrata da duemila anni di storia, mentre Forte dei Marmi un secolo fa non esisteva nemmeno. Era un pezzo di spiaggia senza nome, tagliata dalla strada polverosa che volle Michelangelo per condurre al pontile i blocchi di marmo provenienti dalle Apuane».

Così si scopre che i primi turisti arrivarono alla fine del XIX secolo. Erano intellettuali mitteleuropei, pittori, poeti che inseguivano una vita libertaria, convinti di aver scovato in Versilia una nuova Arcadia, ispirati da un ideale panteistico, alla ricerca di una natura selvaggia. «Correvano sulle spiagge nudi, suonavano il pianoforte in riva al mare, costruivano ville nell' intrico della macchia mediterranea delle nostre pinete» racconta Raffaelli. Un mosaico complesso, un racconto senza voce narrante, affidato a un repertorio scovato negli archivi dell' Istituto Luce, nelle cantine e nei vecchi bauli delle famiglie del posto e alle testimonianze dei protagonisti.

Come Ansano Giannarelli per cui la Versilia è «quell' angolo di terra dove allunga le sue dita l'ombra della Pania quando sorge il sole» Oppure come lo scrittore Manlio Cancogni, per cui il viaggio di ritorno da Roma verso le pinete oscure e il mare del Forte «era l' episodio centrale dell' anno. è su questa suggestione che ho cominciato a scrivere». Alle voci si intrecciano le immagini. La sagoma della capanna di un falegname autoctono che i Franceschi trasformarono nella leggendaria sala da ballo spendendo cinquemila lire. La storia di Alaide Mattugini, la fondatrice del primo stabilimento balneare, «perché l' idea di offrire un servizio per accogliere i villeggianti è sorta da una sensibilità femminile».

Enrico Pea seduto all' ombra del quarto platano del caffè Roma con Carrà, Montale e Dazzi, «fuggiti dal Fissi, oggi il Principe, perché erano arrivati Malaparte e Virginia Agnelli e non si sopportavano». Poi gentildonne con la cuffia e l' ombrellino, bambini che mangiano l' uva in spiaggia, sullo sfondo del pontile degli anni ' 20 e ' 30, ormai una promenade per l' estasi del tramonto, cui fa da contrappunto l' iconografia della povertà popolana: il fortino polveroso con le donne con i cesti sulla testa alla fontanella e i buoi col carro in attesa della soma.

Uno spaccato che percorre le guerre, l' invasione nazista, la strage di Sant' Anna e la storia della prima famiglia russa approdata al Forte: la nonna di Alessandra Czeczott, nobildonna in rovina fuggita dalla Rivoluzione d' ottobre, fondatrice della pensione Elena, pioniera dell' accoglienza rivierasca. «Nell' immaginario collettivo si crede che il Forte sia nato con gli Agnelli. Le immagini solari della propaganda fascista nascondono le condizioni di un insediamento in cui fra le due guerre si moriva di fame, dove si campava a pane e olio» dice Raffaelli del suo film, già in dvd nelle librerie versiliesi e da settembre anche in quelle toscane.

Un affresco della società italiana: «Negli anni ' 30 si aprì un dibattito fra i fortemarmini. Si doveva scegliere fra la vocazione turistica e uno sviluppo economico che privilegiasse l'anarchia industriale del marmo. Sapete come è andata».


Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (2/8/2008)

sabato 25 luglio 2009

Sulle orme del Che

FIRENZE - Ha viaggiato 54 anni dopo il mito. Il rivoluzionario barbuto effigiato sulle magliette rosse di milioni di ragazzi. Ne ha ripercorso le tappe, polvere e natura, povertà e allegria, disperazione e bellezza. La stessa passione per la medicina, lo stesso slancio verso gli esseri umani, con l' incoscienza indomita dell' avventuriero, lo sfrontato coraggio di chi ha tutto da perdere e un' utopia da realizzare. Ha mollato tutto - casa, lavoro, amici -, comprato la sua "Poderosa" (una moto Bmw 650) e macinato 55mila chilometri e 12 mesi fra le rovine e le meraviglie di tutta l'America Latina. Una dicotomia lacerante, riccioli neri che si ribellano al vento, occhi verdi e un' idea fissa: esplorare 21 Paesi di uno dei continenti più malati del mondo e scoprirne le fratture, studiare e prendere coscienza delle condizioni di salute del suo popolo, come nel 1952 fece il Che, Ernesto Guevara che ancora chiamavano "El fuser", il furibondo. Salvador Carlucci oggi ha 28 anni, è un italo-nicaraguegno con un adolescenza spesa fra il liceo scientifico Gramsci di Firenze, l' Arno e la nazionale di canottaggio. All'ombra del cupolone del Brunelleschi ha lasciato due genitori orgogliosi, madre nicaraguegna e padre fiorentino, con il cuore che «non lo nego - dice la mamma Reyna Martìnez - batte a sinistra e crede ancora nella rivoluzione. Salvador l'ha respirata fino ai 13 anni anche in Nicaragua, dove è nato, nelle stagioni di pace seguite alla guerra civile del '79». Poi gli anni in Italia, il ritorno nella sua terra d'origine, il trasferimento in California per una laurea in chimica e matematica e una specializzazione in bio-scienze farmacologiche. Infine ha investito tutti i suoi soldi sul Sudamerica, per una circumnavigazione a due ruote a colpi di 300 km al giorno e tappe di una o due settimane in ogni Paese. Un tour partito nel luglio del 2006 e concluso l'anno dopo. Un «folle volo» senza nocchiero né compagni. Salpato dalla California alla volta del Messico, Salvador ha solcato la rete di itinerari sterrati della Panamericana, giù fino ai ripidi tracciati delle Ande, le rapide e i ghiacciai «stupefacenti» della Patagonia, passando le foreste pluviali dell'Amazzonia, i deserti, le favelas del Brasile, le pampas argentine o il Salar di Uyuni, il lago di sale più grande del pianeta, in Bolivia. I suoi "Diari della motocicletta" li ha scritti passo passo su un blog personale (www.salcar.org). Scrive entusiasta di Cuba, «dove ancora rivive la rivoluzione», della giungla intorno al Rio delle Amazzoni e al Rio della Plata, «dove è in atto una deforestazione sfrenata in mano a mafie locali e multinazionali del legno», ma soprattutto scrive di «un progetto pilota per esportare modelli di sviluppo sanitario nei 30 Stati più disastrati del mondo», ci racconta al telefono da Managua, la capitale del Nicaragua, «dove ho appena compiuto un altro viaggio in moto fra le vecchie bananiere degli Stati Uniti, villaggi rurali dimenticati da Dio e dal mondo sulla costa atlantica, poco battuta dalle ong internazionali, attratte dalla ricchezza, dal lusso e dal turismo del Pacifico. Ne ho vista solo una di organizzazioni serie, gestita da una comunità di missionari cristiani. Hanno attrezzato una barca come un ospedale. Sala operatoria, laboratorio d'analisi, farmacia, dormitori per i ricoveri: c' è tutto. Navigano gli affluenti del Rio delle Amazzoni fin che possono, poi raggiungo comunità e tribù con imbarcazioni più piccole». Verso quei nuclei abitati in mezzo alle foreste, alla vegetazione fitta e lussureggiante ma malata di malaria, colera e dengue, sta organizzando spedizioni per consegnare farmaci di base, fornire primo soccorso e cure mediche. Le finanzia organizzando tour in moto simili ai suoi viaggi: «Porto con me turisti non convenzionali, desiderosi di conoscere regioni in cui da soli non potrebbero mai arrivare. Tragitti che non sono solo vacanza ma anche un modo per portare aiuto a comunità che vivono isolate da tutto, dove non esiste la benché minima educazione alle norme igieniche essenziali, dove non arriva acqua potabile ed elettricità, e i bambini muoiono ogni giorno perché il primo ospedale è a una giornata di cammino». L' ultima incursione nel cuore di tenebra del Nicaragua, Salvador l'ha compiuta verso Kansas City, toponimo di un grappolo di baracche di un vecchio caravanserraglio dell' imperialismo Usa. Ha portato antiparassitari, antibiotici, un kit con disinfettanti, garze e altro materiale per ogni nucleo familiare. La sua storia è finita sui maggiori quotidiani stampati aldilà dell' Atlantico e perfino in un servizio della Cnn, che ora circola su You Tube. L' affinità con l' avventura del Che gli ha fatto da trampolino: «Mi sono ispirato al Che avventuriero e scienziato, non all' uomo politico, perché quando di mezzo ci va la politica è sempre un casino». E Salvador non ci ha pensato un attimo: «Sono partito così, in un lampo. Cosa mi porto dentro di quello che ho visto? Bellezze naturali, tanta miseria e qualche brivido. Come quello che ti scorre sulla schiena se la tua moto romba in territorio colombiano, in pieno feudo delle Farc». E di Firenze che ricordi hai? «Gli anni delle occupazioni, delle manifestazioni con i ragazzi. Insomma tutto quello che si respira in una città rossa. E' la mia eredità italiana. In fondo è ancora così, no?».


Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (13/7/2008)