domenica 26 luglio 2009

Il mondo di Cancogni

MARINA DI PIETRASANTA - «Ho ridotto il mio spazio vitale a questa stanza, ma non dimenticherò mai l' odore che sentivo in spiaggia da bambino. Il mare intimoriva, emanava una fragranza che dava la sensazione di trovarsi davanti a un corpo nudo, una natura viva pronta ad accoglierti. Alle volte addirittura riusciva a imbarazzarti. Non l' ho più risentito». Il filo conduttore di questa storia è la memoria, la forza di una traccia vitale che un luogo ha impresso sulla vita e le opere di uomo che ha amato con struggimento la località in cui è tornato per anni in estate fin dall' infanzia. La terra di cui sentiremo è la Versilia, la voce che ce la racconta è quella di Manlio Cancogni.

Da giornalista e scrittore ha attraversato quasi tutto il Novecento, vinto un Viareggio, uno Strega, firmato inchieste per l' Europeo, Il Corriere della sera e l'Espresso che i manuali segnalano come oracoli per le nuove generazioni di cronisti. Ha compiuto 92 anni il 6 luglio scorso nella sua villetta affacciata sul mare di Fiumetto. Lì, a Marina di Pietrasanta, sopra un vialetto di platani e acacie, vive da tempo con la moglie Rori. Da un paio d'anni riceve le visite degli amici più cari senza mai mettere il naso fuori dalla porta, «perché la Versilia che vedo è quella che immagino, che ricostruisco pezzo per pezzo mettendo insieme i tasselli della memoria». Ed è una memoria sorgiva, fluviale, maneggiata con lucidità e ironia, plasmata in strumento poetico.
Tutto parte da qui, in principio era la Versilia dunque..
«Beh sì. Credo di amare e di aver provato nostalgia per questa terra come mai nessuno dei suoi abitanti. Il viaggio di ritorno da Roma verso il mare era l' episodio centrale dell' anno. E' su questa suggestione che ho cominciato a scrivere. Credo che sia dovuto al fatto che ci sono stato un anno a balia. La Versilia aveva preso il posto di mia madre, la sua natura per me era una natura materna».
Il suo libro, "Il latte del poeta", parla di questo?
«Ho fatto della Versilia un' astrazione letteraria. Qui riuscivo ad essere a mio agio, in pace con me stesso, tranquillo. Per lavoro ho viaggiato in moltissimi posti, che mi sceglievo e teoricamente, nella mia fantasia, mi piacevano pure. Ma dopo pochi giorni sentivo subito il bisogno di tornare. Poi tornavo e volevo subito intraprendere un nuovo viaggio. Ora, invece, non ho più il desiderio dell' Altrove. Ho finalmente realizzato il sogno che avevo da bambino».
Mare o montagna. Cosa è rimasto immutato?
«Il litorale è cambiato di più. Non c' era neanche il viale a mare. La sabbia arrivava a toccare le case. C' erano ancora le dune, piene di vegetazione e spiagge semideserte. Poi pochissimi bagni, di legno: capanne di frasche e falaschi che si costruivano all' inizio dell' estate e si bruciavano in grandi falò a fine settembre. Dietro, una macchia fittissima, non del tutto mediterranea. In parte era una foresta nordica. Oltre ai pini, torreggiavano olmi, frassini, betulle e platani. Le montagne invece sono ancora bellissime, anche se l' alluvione del '96 ha spellato le pendici dei massicci più belli».
E che per lei sono stati fonte di ispirazione
«Sempre. La storia del romanzo Il Ritorno, ad esempio, è quella di un battaglione italiano in Bosnia colto di sorpresa dall' armistizio dell' 8 settembre. Incapace di qualsiasi patteggiamento con i tedeschi e i partigiani, intraprende una marcia della salvezza verso la Macedonia. Ma è tutto immaginario, il pretesto era ripercorrere, come i greci nel leggendario racconto di Senofonte, le tappe della mia vita e quelle dei sentieri che da bambino percorrevo sulle Apuane con mio padre. è un viaggio della memoria e dello spirito che culmina nella visione salvifica del mare. In quelle lunghe passeggiate si attraversava un valico che alzava il sipario sullo spettacolo della costa, e per me era sempre un' emozione fortissima: ti trovavi di fronte alla Verità. Come vede io sono un versiliese anomalo».
In che senso?
«Ho sempre amato di più la montagna. In fondo per me la Versilia non ha mai significato vacanza, ma scoperta. è diventata luogo di vacanza prima della guerra, all' epoca delle rotonde sul mare, del tram che solcava la sabbia da Forte dei Marmi a Viareggio. Oggi non è più come prima. C'erano i villeggianti, che si fermavano per due o tre mesi, non i turisti. Il turista è un animale diverso. Si ferma poco, non vede, non conosce e se ne riparte, è un animale onnivoro che deve riempire tutto in poco tempo, senza la sosta che invece è necessaria alla riflessione».
Oggi al Forte ci sono i russi.
«Non ne so un granché, immagino siano ex Kgb, figurarsi. A dire il vero, su di me il Forte non ha mai esercitato grande fascino. Il Quarto Platano l'ho frequentato pochissimo, anche se li conoscevo tutti: Carrà, Soffici, Papini, ma alla presenza dei letterati avrei preferito quella degli sportivi. Rimpiango Enrico Pea, un grande scrittore ingiustamente dimenticato. E l'umorismo di Montale. Credo che neanche lui si rendesse conto della sagacia comica di cui era dotato».
Di solito sotto l' ombrellone ci si rilassa con un bel libro, cosa sta leggendo?
«Per la quarta volta, Addio alle armi di Hemingway. Insieme a Fiesta e ai racconti, trovo sia uno dei suoi libri migliori. Non mi appassiono molto ai contemporanei, anche se come giurato del premio Strega ho letto quelli in concorso. Ho votato Rea, anche se non mi ha convinto. Giordano è molto giovane e promettente, ma non mi ha interessato».
Se si discute di cultura, in Versilia si parla di Pietrasanta.
«Mah, prima a Pietrasanta c'era una solida tradizione di artigianato. Negli studi si facevano lavori di grande livello. Si riusciva a riprodurre alla perfezione non solo un Canova o un Bernini, ma addirittura Prassitele e Fidia. Erano artigiani abilissimi, fra i quali c'erano dei veri artisti, come la dinastia dei Tommasi. Ora tutto questo è scomparso. In pochi si cimentano più con la figura umana. Certo, ci sono Botero e Mitoraj, nomi di fama internazionale. Ma è un altro paio di maniche, e si chiama mercato, non cultura».
A Firenze ieri si è celebrato l' anniversario della liberazione della città, e oggi ci sarà la commemorazione della strage di Sant' Anna. Lei dov' era nel '44?
«A Firenze, facevo parte del Fronte della gioventù. è stata la liberazione più sanguinosa di tutto il Paese. Un mese di guerriglia fra partigiani e tedeschi: una carneficina. La mattina dell'11 agosto scesi di corsa in piazza D'Azeglio. I partigiani urlavano. Si era sparsa la voce dell'arrivo delle forze alleate. Mi ricordo di aver afferrato la mano di una vecchietta che si sporgeva da una finestra di via della Colonna. Mi chiese se fossero davvero arrivati. Rispondendole, mi misi a piangere. Di Sant' Anna, all' inizio avemmo notizie confuse. Alcuni dicevano che la strage fosse avvenuta a Stazzema, altri parlavano di Farnocchia. Io ci andai l'anno dopo, come inviato della Nazione del Popolo. C'erano rimaste cinque persone. Ricordo una donna che vagava ancora in preda alla paura».
Per quel giornale, nel '45, scrisse un articolo in cui perorava la causa di un' istruzione fondata sulla memoria e il nozionismo. L' eco della sua Modesta proposta fu tale che Firenze si riempì di scritte di protesta. Lo riscriverebbe?
«Con quell' articolo prendevo in giro prima di tutto me stesso. Avevo insegnato filosofia in un liceo e con i ragazzi adottavo un metodo troppo confidenziale. Chiacchieravamo, e poi alla fine li passavo tutti. Comunque sono ancora dello stesso parere. La base dell' apprendimento è la memoria. I francesi dicevano: "apprendre par le couer", si apprende attraverso il cuore. Ed è vero perché la memoria è affettiva, e non una scatola dove si ripongono cose alla rinfusa».


Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (12/8/2008)

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