PIETRASANTA - «Marcello sembrava un hidalgo spagnolo, non era tipo incline al compromesso e alle mezze misure. Un uomo tutto di un pezzo, un uomo tutto uomo, che ha vissuto il tragico quotidiano con grande dignità. Un personaggio inattuale per il mondo moderno, un dinosauro dell’esistenza che esprimeva se stesso attraverso una grande arte. E purtroppo di uomini e artisti così non ce ne sono più». Manlio Cancogni conosceva Marcello Tommasi fin da bambino. Parente e amico di tutta la famiglia, lo scrittore versiliese ricorda le lunghe conversazioni, le opere, il linguaggio e la grammatica che l’artista pietrasantino usava nell’arte dimezzata tra Firenze e Pietrasanta, fra la grande città del Rinascimento e la piccola Atene, in cui tornava tutte le estati nella villa di Fiumetto, proprio vicina alla sua sul lungomare.
Che cosa ha significato nella sua vita la presenza di Tommasi?
«Per me è stato prima di tutto un carissimo parente. Ricordo ancora la prima volta in cui lo vidi. Era nato da cinque mesi. Fu nel giugno del 1928, lo stringeva in braccio il padre Leone che era tornato in licenza alla casa di Fiumetto proprio per festeggiare la nascita del primo figlio. L’ho visto crescere e quando divenne un giovanotto cominciarono le nostre lunghe conversazioni. Parlavamo di arte e letteratura. Non era solo un grande artista, ma anche un uomo con un grande bagaglio culturale, che spaziava dal mondo classico a quello contemporaneo».
Era l’ultimo di una dinastia di artisti fra le più importanti in Italia. L’arte era una scintilla iscritta nel suo codice genetico?
«Beh sì. Dal padre ha ereditato la passione per i grandi dei secoli passati, c’è molto di Leone in Marcello. Però non si deve pensare che le sue opere siano state una riproduzione di quelle del padre. Addirittura prima di essere uno scultore, Marcello si dedicò alla pittura diventando anche uno degli allievi migliori di Annigoni. Forse, per una volontà inconscia di creare la propria identità creativa, scelse una strada che lo slegasse dal padre, ma indubbiamente ha imparato molto da lui. Tanto che quando morì Leone, Marcello prese la sua vera via, che era quella della scultura».
La vita di Tommasi è stata segnata da tanti momenti drammatici, come lo hanno cambiato?
«Profondamente. La morte dei fratelli, della nipote e infine quella della moglie, che ha amato teneramente e con passione fino alla fine, l’hanno stravolto. La vita gli ha fatto terra bruciata intorno, ormai viveva per le sue figlie e i nipoti. Eppure Marcello, come Riccardo, era un uomo esuberante, un carattere anarchico per certi versi. Amava circondarsi di persone semplici, una compagnia festosa fatta di gente comune, in cui rintracciava un’umanità che preferiva a certe pose aristocratiche. Un carattere verace e vitale che un po’ l’ha penalizzato».
In che modo?
«Ad esempio, non ha mai avuto un mercante che si occupasse di promuovere la sua immagine presso la critica, come invece aveva saputo fare Riccardo. E si sa, nel mercato dell’arte, contano anche questi aspetti, ma lui intravedeva un fama più grande, pensava che la Storia l’avrebbe riscattato. Non so se sarà così. Oggi l’arte non esiste più. Oggi tutti si proclamano artisti: i pubblicitari, i cantanti rock, perfino un cuoco è diventato un artista. È per questo che Marcello non amava più il mondo d’oggi».
Ma i suoi bronzi non sono solo un tributo e un’imitazione dell’arte antica.
«Certo che no. Marcello non era un sopravvissuto, un artista che viveva nel naufragio del passato. I greci, i manieristi come Pontormo e il Rosso Fiorentino, il Bernini, che lui considerava con spirito paradossale il più grande scultore universale, erano sentiti come depositi di forze morali per la sua riflessione. Al centro c’era la figura umana, l’uomo contemporaneo con i suoi tormenti, e per rappresentarlo si doveva spendere fatica, studio, coltivare la tecnica. Mi sembra questo il messaggio che oggi lascia ai suoi allievi e a chi pensa di intraprendere la via dell’arte. E spero che per questo anche Pietrasanta, che lui contrariamente a quanto si pensa amava ancora moltissimo, gliene sarà riconoscente, gli dedichi il giusto tributo».
Pubblicato da Mario Neri su ilTirreno (30/09/2008)
p.s. pubblico adesso questa intervista a Manlio Cancogni poiché si avvicina l'anniversario della morte di Marcello Tommasi. Nei confronti di Marcello ho un debito di conoscenza e affetto che non riuscirò mai ad estingure, neanche con mille di questi doverosi tributi alla sua memoria.
martedì 15 settembre 2009
lunedì 14 settembre 2009
Sopravvissuto a Viareggio: "Salvo ancora vite umane"
Microstoria dal volontariato
«DOPO quella notte ho pensato di mollare. Uscito dall'ospedale, davanti alla sede mi misi anche a piangere: mi vorticavano ancora in testa i fantasmi di quell'inferno». Luigi Cordoni, 45 anni, volontario alla Croce Verde di Viareggio, non ha ceduto alle ustioni e all'onda di fuoco che il 29 giugno l'ha travolto nel garage mentre tentava di salire su un'ambulanza per uscire e darsi da fare. Si è rimesso in sella, salva ancora vite nelle notti versiliesi.
Come ci si può riuscire?
«Pensi che l' hai fatto per anni, che ne hai viste di cose brutte, ma che hai iniziato perché volevi aiutare la gente ed è un tuo dovere continuare. Ecco come».
Quando ha iniziato e perché? «Ventisei anni fa, avevo 14 anni. Abitavo vicino all' ospedale, sentivo le sirene e sapevo che a bordo c' era qualcuno che sacrificava un po' di tempo per gli altri. Erano anni d' eroina e sbandati, io volevo aiutare i miei coetanei e non fare la loro fine»
Quanto tempo dedica al volontariato?
«Dodici ore ogni sei giorni, dalle 8 di sera alle 8 di mattina. Non potrei farlo se non mi appoggiassero mia moglie e mio figlio. Ma vi assicuro, il tempo si trova, basta solo volerlo».
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (09/09/2009)
«DOPO quella notte ho pensato di mollare. Uscito dall'ospedale, davanti alla sede mi misi anche a piangere: mi vorticavano ancora in testa i fantasmi di quell'inferno». Luigi Cordoni, 45 anni, volontario alla Croce Verde di Viareggio, non ha ceduto alle ustioni e all'onda di fuoco che il 29 giugno l'ha travolto nel garage mentre tentava di salire su un'ambulanza per uscire e darsi da fare. Si è rimesso in sella, salva ancora vite nelle notti versiliesi.
Come ci si può riuscire?
«Pensi che l' hai fatto per anni, che ne hai viste di cose brutte, ma che hai iniziato perché volevi aiutare la gente ed è un tuo dovere continuare. Ecco come».
Quando ha iniziato e perché? «Ventisei anni fa, avevo 14 anni. Abitavo vicino all' ospedale, sentivo le sirene e sapevo che a bordo c' era qualcuno che sacrificava un po' di tempo per gli altri. Erano anni d' eroina e sbandati, io volevo aiutare i miei coetanei e non fare la loro fine»
Quanto tempo dedica al volontariato?
«Dodici ore ogni sei giorni, dalle 8 di sera alle 8 di mattina. Non potrei farlo se non mi appoggiassero mia moglie e mio figlio. Ma vi assicuro, il tempo si trova, basta solo volerlo».
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (09/09/2009)
A Coltano irrompe don Tam
COLTANO (PISA) - A fine cerimonia, perfino Pietro Ciabattini, che dal 1996 insieme a un plotoncino di anziani ex repubblichini organizza la commemorazione del campo di prigionia alleato a Coltano, mette le mani avanti: «Delle cose che dice questo prete io non condivido quasi nulla». Nessun incidente fra giovani hard-right di Forza Nuova e antifascisti ieri mattina nella tenuta a un passo da Camp Derby a Pisa. Sotto i pini e ai bordi del campo che dal luglio al settembre del 1945 ospitò 35mila prigionieri italiani e tedeschi, insieme a un goccio di libeccio, si aggirano sussurri e sguardi imbarazzati.
Le invettive contro i gay, l'ossessione per «l'invasione islamica» e gli inviti a «intraprendere una nuova crociata contro gli sbarchi di immigrati che minacciano le radici giudaico-cristiane dell'Europa» che don Giulio Maria Tam distilla alla sua sparuta platea piacciono soprattutto alle falangi locali di Roberto Fiore, una quindicina di ventenni educati a un repertorio di braccia tese, «boia chi molla» e sentimenti antisemiti. Padre lefebvriano scomunicato a divinis, già candidato da FN a sindaco di Bologna e immortalato a Bergamo mentre benediceva con un saluto romano una testuggine armata di caschi neri e mazze tricolori, don Tam sfodera un armamentario a cui il gruppo di ex Rsi ed ex combattenti non era abituato.
Va bene che per i reduci di Salò e loro simpatizzanti il campo di Coltano era un «lager» anche se gli storici lo definiscono solo uno dei tanti centri di prigionia angloamericani da cui, fra l' altro, i reclusi furono quasi tutti liberati. Vanno bene la messa in latino, in stile preconciliare, e pure le stilettate allo «stato liberale e comunista», l'esaltazione di Mussolini («l' uomo della provvidenza»), ma le «cinquanta ave marie da recitare ogni giorno come i cinquanta colpi di mitragliatrice che servono per fare una di quelle Crociate di cui ora la Chiesa si vergogna» sono quasi troppo anche peri «camerati».
«Ma dove l' hai trovato questo parroco?», chiede un uomo in camicia nera a Ciabattini. «Non lo so», risponde l'ex Ss che a Coltano passò più di tre mesi e della sua esperienza ne ha fatto un best seller per nostalgici del Ventennio. Sedato dalla presenza di 100 agenti di polizia e carabinieri, l'allarme lanciato dalla rete antifascista toscana per la presenza del sacerdote valtellinese è un flop di cuori neri. Una cinquantina i reduci davanti al cippo commemorativo e una cinquantina i contestatori a 500 metri di distanza in presidio contro don Tam il "mattatore".
Lui che ha rivisitato l'abito talare («La tonaca è soltanto una camicia nera più lunga», sentenziò in un'ospitata forzanovista) è arrivato a Pisa grazie ai legami col partito di Fiore. A chi lo chiama il Williamson italiano, facendo riferimento al vescovo negazionista, risponde: «L'Olocausto? Non posso esprimermi, è vietato. E poi dicono che c'è la libertà della scienza storica...». Una risposta ce l'ha la rete antifascista pisana: «Tam e iniziative come quelle dei nostalgici di Salò a Coltano sono una minaccia per la democrazia».
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (07/09/2009)
giovedì 3 settembre 2009
Storia di un cuoco e della crisi
FIRENZE - Finora la corrente era bastata a far andare il frigorifero. Dentro c'erano uno yomo, mezzo melone, un cartone di latte, tre uova e un pezzo di pecorino. L' ultima cena sotto un tetto con la famiglia, per Luca S., è un pasto da consumare al buio in un appartamentino di San Frediano. Cuoco di 46 anni, da novembre senza lavoro e da due mesi padre del primo figlio avuto con G., già ragazza madre di una bimba di 13 anni. All' inizio di luglio gli avevano abbassato il voltaggio fino al 15 per cento. Ieri, alle cinque del pomeriggio, la luce sul soffitto è diventata una palla fumosa, poi tac. E fra poche ore salteranno anche gas e acqua, e la lettera dello sfratto è in un cassetto dell'ingresso da due settimane. Luca è uno sprofondato, pelle e ossa che da 9 mesi una bestia nera rosicchia lentamente: «Non s'è mai fermata. La prima cosa che ti risucchia la crisi però non è la luce, è la dignità». Fino a giugno ha tirato avanti con lo stipendio della compagna, 33enne assunta a 800 euro in un McDonald's fiorentino. Ora lei è in maternità, stipendio decurtato del 20 per cento e fra due settimane del 70, cioè 240 euro per mandare avanti quattro persone: «Di qui a qualche giorno la vita mi sputa su una strada, me e la mia famiglia», racconta Luca. «Sono venuto da voi perché non sapevo più a chi rivolgermi». All'inizio di luglio aveva bussato alla porta di Matteo Renzi, in uno dei mercoledì che il sindaco dedica al dialogo con i cittadini. Racconta la sua storia alla segretaria in un corridoio «dove ci sentivano tutti, lei mi dice che dopo 48 ore m' avrebbe richiamato. Niente». Luca ci riprova dopo dieci giorni e invece che nella sala Clemente VII lo mandano in viale De Amicis, all' assessorato al sociale. L'impiegato che si occupa dei casi come il suo è in ferie: deve aspettare il 26 di agosto. «Ci sono andato un sacco di volte. Mi avevano promesso un lavoro da imbianchino. Io gliel'avevo detto che l'imbianchino non l'avevo mai fatto, ma dicevano che m'avrebbero preso lo stesso. Alla fine una mattina alle 6 mi presento in Porta Romana, arriva quello della cooperativa e mi dice che lui aveva bisogno di un esperto perché c'era un lavoro da consegnare al volo. Così gli ho ridato gli scarponi e una settimana fa sono tornato in viale De Amicis». All'appuntamento con l'assistente sociale un'altra bordata: «Mi ha detto che per me non poteva fare niente. Non sono uno straniero né un galeotto né un drogato. S'è anche arrabbiato: "Che devo fare, darglieli io di tasca i soldi?", mi ha chiesto facendo il gesto di sfilarsi il portafogli dalla tasca». Alla Caritas a elemosinare un piatto di spaghetti Luca finora non c'è voluto andare: «Per 20 anni ho fatto il cuoco, ma non mi prende nessuno. Troppa esperienza, costo troppo. Ecco cos'è la crisi: una cosa che prima ti umilia e poi ti toglie anche la vergogna».
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (01/09/2009)
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (01/09/2009)
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