FINORA erano conosciute come mete del turismo ambientale, scrigni naturali di forme oniriche scolpite nel profondo, itinerari di visioni inconsuete. Ora si scopre che negli anfratti e nei cunicoli dei complessi carsici è scritto anche l'avvenire della natura. Nella goccia che cade dal soffitto delle gallerie scavate nel cuore delle montagne c'è la chiave per i segreti della Terra. Nello stillicidio di calcite che genera stalattiti e stalagmiti una mappa sibillina in grado di svelare il passato e il futuro del nostro clima. Lo ha scoperto un gruppo di ricerca internazionale coordinato da un team di studiosi dell' Università di Pisa. Dal 1998 reperta e analizza stalagmiti e stalattiti dell'Antro del Corchia, uno dei complessi carsici più grandi d'Europa. In parte aperti al pubblico nel 2001, i 60 chilometri della grotta generata nel ventre di uno dei massicci più imponenti della Versilia da processi di erosione millenari sono conosciuti soprattutto come una delle meraviglie turistiche del sottosuolo toscano. O come il corollario museale di uno dei maggiori centri di estrazione del marmo in Italia.
«Da qualche mese sappiamo con certezza che le grotte sono anche un registratore naturale dell'evoluzione del pianeta», spiega Giovanni Zanchetta, lo studioso pisano alla guida del team: «L'arco alpino della Toscana ha fatto da barriera orografica a tutta la circolazione atlantica per intere ere geologiche e di conseguenza è diventato un grande serbatoio di informazioni, una specie di hard disk naturale pieno di dati preziosi, anche relativi all' ultimo secolo, maggiormente caratterizzato da fattori antropici, cioè dall'intervento dell'uomo sulla natura» continua il paleoclimatologo. In una manciata di micron, nella goccia di acqua, calcio, uranio e carbonio che risuona da secoli nella pancia del Corchia, gli studiosi hanno scoperto un vero e proprio archivio dei cambiamenti ambientali dell'ultimo milione di anni. «Grazie a indagini chimiche e fisiche sulle concrezioni e all'osservazione del livello di decadimento dell'uranio, rapportato alle quantità di ossigeno e carbonio presenti nei sedimenti calcarei, siamo riusciti a stabilire con estrema precisione la datazione dei maggiori fenomeni atmosferici che hanno investito l'area atlantica. Adesso, ad esempio, sappiamo quali sono stati i passaggi cruciali degli ultimi 950mila anni. Si è già capito che la penultima glaciazione è finita 140mila anni fa, molto prima di quanto ipotizzato negli ultimi 70 anni dagli studiosi, che datavano l'evento con 10mila anni di ritardo. Ma la scoperta davvero inaspettata riguarda il luogo di partenza dell'ondata di caldo che ne aveva provocato la fine. La fase di scioglimento venne innescata nell'emisfero sud, non a nord come finora abbiamo creduto».
La ricerca a settembre è stata pubblicata sulla rivista Science, la fonte più autorevole di informazione per gli scienziati della comunità internazionale. I lavori del team guidato da Zanchetta sono ancora in corso. Altre perturbazioni, variazioni termiche, spostamenti della crosta, periodi di grandi precipitazioni o di mutazione morfologica del territorio saranno databili e riconoscibili grazie allo studio. «In più il nostro lavoro potrebbe rivoluzionare la storia della paleoclimatologia. Queste ricerche, oltre ad essere meno costose e invasive delle trivellazioni e dei carotaggi sulle calotte polari e sui fondali degli oceani, danno risultati migliori. Mentre sedimenti marini o lacustri non possono essere datati oltre il limite del carbonio 14, con le stalattiti possiamo risalire ben oltre e con grande accuratezza. E la particolarità del Corchia è quella di aver mantenuto un ambiente puro, incontaminato, condizione indispensabile per avere risultati attendibili». Non solo. La messe di dati raccolta dal gruppo di ricerca sarà utile a capire meglio cosa potrebbe accadere in futuro. «Applicheremo le informazioni che arrivano dal Corchia a modelli matematici con i quali già oggi tracciamo proiezioni sulle prossime variazioni climatiche», dice Russel Drysdale, studioso che collabora al progetto dall'Università di Newcastle, in Australia. «L'incognita e lo spettro di tutti è il riscaldamento globale, che in realtà è un fenomeno ciclico - continua il ricercatore - ma che l'intervento dell'uomo, con le emissioni di CO2, sta accelerando. Beh, le nostre simulazioni, grazie al Corchia, potrebbero rivelarci quando e cosa aspettarci».
Articolo di Mario Neri pubblicato su Repubblica-Firenze (25/11/2009)
venerdì 4 dicembre 2009
domenica 11 ottobre 2009
Il Burlamacco con la museruola
A VIAREGGIO lo gridano tutti: passerà alla storia come il carnevale della censura preventiva, della cartapesta imbavagliata. La commissione incaricata di valutare i progetti dei maestri della Cittadella ha bocciato due carri in concorso per l' edizione 2010. Uno, firmato da Enrico Vannucci, ritrarrebbe Berlusconi e le "sue" escort. L' altro è una metafora corrosiva e ironica della «paranoia da sicurezza innescata dalla politica del governo», dicono gli autori Gilbert Lebigre e Corinne Roger.
Entrambe le strutture però non potranno sfilare sui viali a mare, almeno così come sono state concepite. Sarebbero «poco emozionanti» e non avrebbero un «respiro internazionale». Queste le motivazioni dei tecnici nominati dal presidente della Fondazione Carnevale, Giovanni Maglione, emanazione della giunta comunale. La sua è la prima gestione di destra, almeno da vent'anni a questa parte. «I carristi dovranno rimettere mano ai progetti, ma non parliamo di censura politica. Semplicemente quei due bozzetti non sono stati ritenuti all' altezza», dice Maglione.
Eppure fra maggioranza e opposizione in consiglio il giudizio è unanime: in pericolo ci sono libertà d'espressione e spirito del Carnevale, tuonano Pd e Pdl a Viareggio. Nessuno vuol pensare a un Burlamacco che si autodisciplina, a una satira annacquata. L'appoggio ai due carristi è trasversale: «Nei limiti del buon gusto, la satira deve poter essere sempre libera», dice il sindaco Luca Lunardini. L'assessore alla cultura Ciro Costagliola non accetta che «ci siano interferenze sui contenuti espressi dagli artisti». E per il senatore del Pd Andrea Marcucci, se la commissione non facesse un passo indietro, «il nostro paese tornerebbe a coprirsi di ridicolo».
Eppure fra maggioranza e opposizione in consiglio il giudizio è unanime: in pericolo ci sono libertà d'espressione e spirito del Carnevale, tuonano Pd e Pdl a Viareggio. Nessuno vuol pensare a un Burlamacco che si autodisciplina, a una satira annacquata. L'appoggio ai due carristi è trasversale: «Nei limiti del buon gusto, la satira deve poter essere sempre libera», dice il sindaco Luca Lunardini. L'assessore alla cultura Ciro Costagliola non accetta che «ci siano interferenze sui contenuti espressi dagli artisti». E per il senatore del Pd Andrea Marcucci, se la commissione non facesse un passo indietro, «il nostro paese tornerebbe a coprirsi di ridicolo».
Censura, boicottaggio preventivo sulla cartapesta, «un'eco preoccupante - dice il segretario del Pd toscano Andrea Manciulli - del clima di soffocamento della libertà d'espressione che stiamo vivendo in Italia». In 136 anni di storia, sarebbe il primo caso di censura politica al Carnevale. In piena era Dc, fra gli anni Sessanta e i Settanta, fecero scalpore un Fanfani pulcino in camicia nera e fez, e un GattoMao Zedong che stracciava una bandiera americana. Reazioni, burrasca sui tg e sui giornali, ma nessuno si azzardò a bloccarli. L' allegoria dell' harem di Palazzo Grazioli ideata da Vannucci ritrae un Berlusconi bebè armato di biberon al viagra, e intorno escort e veline. «Le motivazioni con cui ce li hanno bocciati mi sembrano banali - dice il carrista - Ma attenti, ho un altro disegno nel cassetto ancora più graffiante».
L' altro carro è una metropoli del futuro blindata e protetta da divieti di accesso e cannoni che sparano coriandoli. A difesa dei varchi, come guardie di frontiera, le caricature di Borghezio, Calderoli, Maroni e Salvini. Sopra i "quattro colonnelli" della Lega, il premier che si protende dal televisore e fa segno di sparare con la mano (chiedete a Putin). Lebigre ha le idee chiare: «Non cambio tema, in ballo c' è l'anima del Carnevale, da sempre irriverente e libertario».
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (27/09/2009)
Ibi: mi sposo qui, tra i miei ricordi
«DA sola, ogni tanto, torno in via Ponchielli. Anche se è nera e bruciata, io la ricompongo pezzo per pezzo. Mi fermo davanti al civico 21 e cancello gli scheletri delle case, rimonto le macerie, metto insieme i flash. Rivedo la mamma e il babbo in cucina, i miei fratelli che giocano, come se nulla fosse successo, come se non fossero morti, e riesco a credere che un domani è possibile». Occhi di pece, capelli raccolti nel vento sul molo di Viareggio, Ibi è tornata qualche giorno fa da Casablanca, dove era volata a fine agosto.
Ibtissan Ayad, 21 anni, è la ragazza magrebina diventata simbolo della strage di Viareggio. Il 29 giugno ha perso suo padre Mohamed, 51 anni, sua madre Aziza, 46, suo fratello Hamza, 17 anni, e la sorellina Iman, di 3 anni: «Lei è il mio tesoro. Quando torno davanti al 21 la rivedo dondolare sull'altalena nel giardino, è come un miraggio: dura poco ma mi basta, mi deve bastare. Rimuovere non serve, io ricucio i ricordi. Piango sempre per quella notte in cui mio padre mezzo carbonizzato mi lanciò un bacio con la mano e mia madre non fece in tempo a fuggire perché aveva dimenticato i documenti, ripenso a Hamza, a lui che usciva fino a tardi, che era tornato prima di mezzanotte, e a Iman che cantava le canzoni del carnevale. Il destino è stato un domino, le tessere della mia vita le ha tirate giù tutte. Io sono rimasta in piedi e devo continuare a starci».
Ibi sa già come: «A metà ottobre mi sposo con Hicham. Un rito civile in Comune, perché mi sento italiana anche se la cittadinanza non ce l'ho. Se avremo una bambina la chiameremo Iman. Farò la pasticcera, una vocazione che ho ereditato da mia mamma. Preparava da mangiare per i ragazzi che arrivavano dal Marocco. Insieme a mio padre, faceva da punto di riferimento per chi approdava a Viareggio spaesato e confuso. La casa in via Ponchielli era una specie di casa famiglia. Lì non tornerò mai ad abitare, esala troppo dolore, ma con i soldi del risarcimento farò anch'io una casa famiglia, e mi sentirò di nuovo a casa».
Adesso vive con Hicham, un ragazzo di 24 anni che ha conosciuto quattro anni fa. Lei era arrivata a Viareggio nel 2004, in autobus. Dopo tre giorni di viaggio, l'autista si era fermato alla stazione: «Il babbo era qui dal '92, lavorava al porto nei cantieri navali. Ci accompagnò subito in passeggiata e io mi innamorai». Ora davanti al "bhar", al mare, Ibi va di sera, «piango e parlo da sola, ma sempre più spesso alzo lo sguardo. E la paura si dissolve»
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (24/09/2009)
Ibtissan Ayad, 21 anni, è la ragazza magrebina diventata simbolo della strage di Viareggio. Il 29 giugno ha perso suo padre Mohamed, 51 anni, sua madre Aziza, 46, suo fratello Hamza, 17 anni, e la sorellina Iman, di 3 anni: «Lei è il mio tesoro. Quando torno davanti al 21 la rivedo dondolare sull'altalena nel giardino, è come un miraggio: dura poco ma mi basta, mi deve bastare. Rimuovere non serve, io ricucio i ricordi. Piango sempre per quella notte in cui mio padre mezzo carbonizzato mi lanciò un bacio con la mano e mia madre non fece in tempo a fuggire perché aveva dimenticato i documenti, ripenso a Hamza, a lui che usciva fino a tardi, che era tornato prima di mezzanotte, e a Iman che cantava le canzoni del carnevale. Il destino è stato un domino, le tessere della mia vita le ha tirate giù tutte. Io sono rimasta in piedi e devo continuare a starci».
Ibi sa già come: «A metà ottobre mi sposo con Hicham. Un rito civile in Comune, perché mi sento italiana anche se la cittadinanza non ce l'ho. Se avremo una bambina la chiameremo Iman. Farò la pasticcera, una vocazione che ho ereditato da mia mamma. Preparava da mangiare per i ragazzi che arrivavano dal Marocco. Insieme a mio padre, faceva da punto di riferimento per chi approdava a Viareggio spaesato e confuso. La casa in via Ponchielli era una specie di casa famiglia. Lì non tornerò mai ad abitare, esala troppo dolore, ma con i soldi del risarcimento farò anch'io una casa famiglia, e mi sentirò di nuovo a casa».
Adesso vive con Hicham, un ragazzo di 24 anni che ha conosciuto quattro anni fa. Lei era arrivata a Viareggio nel 2004, in autobus. Dopo tre giorni di viaggio, l'autista si era fermato alla stazione: «Il babbo era qui dal '92, lavorava al porto nei cantieri navali. Ci accompagnò subito in passeggiata e io mi innamorai». Ora davanti al "bhar", al mare, Ibi va di sera, «piango e parlo da sola, ma sempre più spesso alzo lo sguardo. E la paura si dissolve»
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (24/09/2009)
martedì 15 settembre 2009
Tommasi, un uomo tutto uomo
PIETRASANTA - «Marcello sembrava un hidalgo spagnolo, non era tipo incline al compromesso e alle mezze misure. Un uomo tutto di un pezzo, un uomo tutto uomo, che ha vissuto il tragico quotidiano con grande dignità. Un personaggio inattuale per il mondo moderno, un dinosauro dell’esistenza che esprimeva se stesso attraverso una grande arte. E purtroppo di uomini e artisti così non ce ne sono più». Manlio Cancogni conosceva Marcello Tommasi fin da bambino. Parente e amico di tutta la famiglia, lo scrittore versiliese ricorda le lunghe conversazioni, le opere, il linguaggio e la grammatica che l’artista pietrasantino usava nell’arte dimezzata tra Firenze e Pietrasanta, fra la grande città del Rinascimento e la piccola Atene, in cui tornava tutte le estati nella villa di Fiumetto, proprio vicina alla sua sul lungomare.
Che cosa ha significato nella sua vita la presenza di Tommasi?
«Per me è stato prima di tutto un carissimo parente. Ricordo ancora la prima volta in cui lo vidi. Era nato da cinque mesi. Fu nel giugno del 1928, lo stringeva in braccio il padre Leone che era tornato in licenza alla casa di Fiumetto proprio per festeggiare la nascita del primo figlio. L’ho visto crescere e quando divenne un giovanotto cominciarono le nostre lunghe conversazioni. Parlavamo di arte e letteratura. Non era solo un grande artista, ma anche un uomo con un grande bagaglio culturale, che spaziava dal mondo classico a quello contemporaneo».
Era l’ultimo di una dinastia di artisti fra le più importanti in Italia. L’arte era una scintilla iscritta nel suo codice genetico?
«Beh sì. Dal padre ha ereditato la passione per i grandi dei secoli passati, c’è molto di Leone in Marcello. Però non si deve pensare che le sue opere siano state una riproduzione di quelle del padre. Addirittura prima di essere uno scultore, Marcello si dedicò alla pittura diventando anche uno degli allievi migliori di Annigoni. Forse, per una volontà inconscia di creare la propria identità creativa, scelse una strada che lo slegasse dal padre, ma indubbiamente ha imparato molto da lui. Tanto che quando morì Leone, Marcello prese la sua vera via, che era quella della scultura».
La vita di Tommasi è stata segnata da tanti momenti drammatici, come lo hanno cambiato?
«Profondamente. La morte dei fratelli, della nipote e infine quella della moglie, che ha amato teneramente e con passione fino alla fine, l’hanno stravolto. La vita gli ha fatto terra bruciata intorno, ormai viveva per le sue figlie e i nipoti. Eppure Marcello, come Riccardo, era un uomo esuberante, un carattere anarchico per certi versi. Amava circondarsi di persone semplici, una compagnia festosa fatta di gente comune, in cui rintracciava un’umanità che preferiva a certe pose aristocratiche. Un carattere verace e vitale che un po’ l’ha penalizzato».
In che modo?
«Ad esempio, non ha mai avuto un mercante che si occupasse di promuovere la sua immagine presso la critica, come invece aveva saputo fare Riccardo. E si sa, nel mercato dell’arte, contano anche questi aspetti, ma lui intravedeva un fama più grande, pensava che la Storia l’avrebbe riscattato. Non so se sarà così. Oggi l’arte non esiste più. Oggi tutti si proclamano artisti: i pubblicitari, i cantanti rock, perfino un cuoco è diventato un artista. È per questo che Marcello non amava più il mondo d’oggi».
Ma i suoi bronzi non sono solo un tributo e un’imitazione dell’arte antica.
«Certo che no. Marcello non era un sopravvissuto, un artista che viveva nel naufragio del passato. I greci, i manieristi come Pontormo e il Rosso Fiorentino, il Bernini, che lui considerava con spirito paradossale il più grande scultore universale, erano sentiti come depositi di forze morali per la sua riflessione. Al centro c’era la figura umana, l’uomo contemporaneo con i suoi tormenti, e per rappresentarlo si doveva spendere fatica, studio, coltivare la tecnica. Mi sembra questo il messaggio che oggi lascia ai suoi allievi e a chi pensa di intraprendere la via dell’arte. E spero che per questo anche Pietrasanta, che lui contrariamente a quanto si pensa amava ancora moltissimo, gliene sarà riconoscente, gli dedichi il giusto tributo».
Pubblicato da Mario Neri su ilTirreno (30/09/2008)
p.s. pubblico adesso questa intervista a Manlio Cancogni poiché si avvicina l'anniversario della morte di Marcello Tommasi. Nei confronti di Marcello ho un debito di conoscenza e affetto che non riuscirò mai ad estingure, neanche con mille di questi doverosi tributi alla sua memoria.
Che cosa ha significato nella sua vita la presenza di Tommasi?
«Per me è stato prima di tutto un carissimo parente. Ricordo ancora la prima volta in cui lo vidi. Era nato da cinque mesi. Fu nel giugno del 1928, lo stringeva in braccio il padre Leone che era tornato in licenza alla casa di Fiumetto proprio per festeggiare la nascita del primo figlio. L’ho visto crescere e quando divenne un giovanotto cominciarono le nostre lunghe conversazioni. Parlavamo di arte e letteratura. Non era solo un grande artista, ma anche un uomo con un grande bagaglio culturale, che spaziava dal mondo classico a quello contemporaneo».
Era l’ultimo di una dinastia di artisti fra le più importanti in Italia. L’arte era una scintilla iscritta nel suo codice genetico?
«Beh sì. Dal padre ha ereditato la passione per i grandi dei secoli passati, c’è molto di Leone in Marcello. Però non si deve pensare che le sue opere siano state una riproduzione di quelle del padre. Addirittura prima di essere uno scultore, Marcello si dedicò alla pittura diventando anche uno degli allievi migliori di Annigoni. Forse, per una volontà inconscia di creare la propria identità creativa, scelse una strada che lo slegasse dal padre, ma indubbiamente ha imparato molto da lui. Tanto che quando morì Leone, Marcello prese la sua vera via, che era quella della scultura».
La vita di Tommasi è stata segnata da tanti momenti drammatici, come lo hanno cambiato?
«Profondamente. La morte dei fratelli, della nipote e infine quella della moglie, che ha amato teneramente e con passione fino alla fine, l’hanno stravolto. La vita gli ha fatto terra bruciata intorno, ormai viveva per le sue figlie e i nipoti. Eppure Marcello, come Riccardo, era un uomo esuberante, un carattere anarchico per certi versi. Amava circondarsi di persone semplici, una compagnia festosa fatta di gente comune, in cui rintracciava un’umanità che preferiva a certe pose aristocratiche. Un carattere verace e vitale che un po’ l’ha penalizzato».
In che modo?
«Ad esempio, non ha mai avuto un mercante che si occupasse di promuovere la sua immagine presso la critica, come invece aveva saputo fare Riccardo. E si sa, nel mercato dell’arte, contano anche questi aspetti, ma lui intravedeva un fama più grande, pensava che la Storia l’avrebbe riscattato. Non so se sarà così. Oggi l’arte non esiste più. Oggi tutti si proclamano artisti: i pubblicitari, i cantanti rock, perfino un cuoco è diventato un artista. È per questo che Marcello non amava più il mondo d’oggi».
Ma i suoi bronzi non sono solo un tributo e un’imitazione dell’arte antica.
«Certo che no. Marcello non era un sopravvissuto, un artista che viveva nel naufragio del passato. I greci, i manieristi come Pontormo e il Rosso Fiorentino, il Bernini, che lui considerava con spirito paradossale il più grande scultore universale, erano sentiti come depositi di forze morali per la sua riflessione. Al centro c’era la figura umana, l’uomo contemporaneo con i suoi tormenti, e per rappresentarlo si doveva spendere fatica, studio, coltivare la tecnica. Mi sembra questo il messaggio che oggi lascia ai suoi allievi e a chi pensa di intraprendere la via dell’arte. E spero che per questo anche Pietrasanta, che lui contrariamente a quanto si pensa amava ancora moltissimo, gliene sarà riconoscente, gli dedichi il giusto tributo».
Pubblicato da Mario Neri su ilTirreno (30/09/2008)
p.s. pubblico adesso questa intervista a Manlio Cancogni poiché si avvicina l'anniversario della morte di Marcello Tommasi. Nei confronti di Marcello ho un debito di conoscenza e affetto che non riuscirò mai ad estingure, neanche con mille di questi doverosi tributi alla sua memoria.
lunedì 14 settembre 2009
Sopravvissuto a Viareggio: "Salvo ancora vite umane"
Microstoria dal volontariato
«DOPO quella notte ho pensato di mollare. Uscito dall'ospedale, davanti alla sede mi misi anche a piangere: mi vorticavano ancora in testa i fantasmi di quell'inferno». Luigi Cordoni, 45 anni, volontario alla Croce Verde di Viareggio, non ha ceduto alle ustioni e all'onda di fuoco che il 29 giugno l'ha travolto nel garage mentre tentava di salire su un'ambulanza per uscire e darsi da fare. Si è rimesso in sella, salva ancora vite nelle notti versiliesi.
Come ci si può riuscire?
«Pensi che l' hai fatto per anni, che ne hai viste di cose brutte, ma che hai iniziato perché volevi aiutare la gente ed è un tuo dovere continuare. Ecco come».
Quando ha iniziato e perché? «Ventisei anni fa, avevo 14 anni. Abitavo vicino all' ospedale, sentivo le sirene e sapevo che a bordo c' era qualcuno che sacrificava un po' di tempo per gli altri. Erano anni d' eroina e sbandati, io volevo aiutare i miei coetanei e non fare la loro fine»
Quanto tempo dedica al volontariato?
«Dodici ore ogni sei giorni, dalle 8 di sera alle 8 di mattina. Non potrei farlo se non mi appoggiassero mia moglie e mio figlio. Ma vi assicuro, il tempo si trova, basta solo volerlo».
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (09/09/2009)
«DOPO quella notte ho pensato di mollare. Uscito dall'ospedale, davanti alla sede mi misi anche a piangere: mi vorticavano ancora in testa i fantasmi di quell'inferno». Luigi Cordoni, 45 anni, volontario alla Croce Verde di Viareggio, non ha ceduto alle ustioni e all'onda di fuoco che il 29 giugno l'ha travolto nel garage mentre tentava di salire su un'ambulanza per uscire e darsi da fare. Si è rimesso in sella, salva ancora vite nelle notti versiliesi.
Come ci si può riuscire?
«Pensi che l' hai fatto per anni, che ne hai viste di cose brutte, ma che hai iniziato perché volevi aiutare la gente ed è un tuo dovere continuare. Ecco come».
Quando ha iniziato e perché? «Ventisei anni fa, avevo 14 anni. Abitavo vicino all' ospedale, sentivo le sirene e sapevo che a bordo c' era qualcuno che sacrificava un po' di tempo per gli altri. Erano anni d' eroina e sbandati, io volevo aiutare i miei coetanei e non fare la loro fine»
Quanto tempo dedica al volontariato?
«Dodici ore ogni sei giorni, dalle 8 di sera alle 8 di mattina. Non potrei farlo se non mi appoggiassero mia moglie e mio figlio. Ma vi assicuro, il tempo si trova, basta solo volerlo».
Pubblicato da Mario Neri su Repubblica Firenze (09/09/2009)
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